Associazione Fondazione LUCIANO MASSIMO CONSOLI

15 marzo 2008

DECINE DI MORTI A LHASA, ULTIMATUM DA PECHINO

PECHINO- Spauriti cinesi inseguiti da folle inferocite di tibetani, fanatici aizzati ad arte dalla "cricca del Dalai Lama". Questa la versione che i dirigenti cinesi hanno fornito dei disordini di ieri a Lhasa, nei quali, hanno detto, sono morte dieci persone "in maggioranza uomini d'affarì 'e tutti ''pacifici cittadini". Per il governo tibetano in esilio, invece, le vittime sono almeno 30. La situazione nella capitale del Tibet si sta "avviando alla normalità ", hanno assicurato le autorità cinesi, che hanno lanciato un ultimatum minaccioso a quelli che chiamano i "ribelli": consegnatevi e sarete trattati con clemenza, altrimenti sarete puniti "severamente". L'ultimatum scade la sera di lunedì prossimo e non sembra promettere nulla di buono.

"Confermiamo circa 30 morti e abbiamo sentito anche bilanci che parlano di oltre 100 morti, ma non siamo in grado di confermare questa cifra", ha fatto sapere il governo tibetano in esilio che a sede a Dharamsala, la cittadina indiana dove il Dalai Lama, il leader tibetano e premio Nobel per la pace, vive dopo essere fuggito nel 1959, incalzato dall'Esercito di Liberazione Popolare di Mao Zedong.

I residenti di Lhasa descrivono una città in stato d'assedio
: mezzi cingolati presidiano le strade, le poche persone che si avventurano per le strade vengono bloccate dai soldati, in alcune zone si sentono ancora colpi di arma da fuoco. John Miles, il corrispondente dell'Economist che si trova a Lhasa - era partito prima dell' inizio delle proteste, che si susseguono da lunedì scorso, perché da allora non vengono concesse autorizzazioni - ha scritto che ieri alcuni quartieri erano completamente nelle mani dei rivoltosi e, per quello che se sa, la situazione potrebbe non essere molto diversa. In un lungo dispaccio diffuso in serata, l'agenzia Nuova Cina racconta commoventi storie nelle quali i tibetani "buoni" salvano i cinesi dalla furia dei cattivi "agenti del Dalai Lama".

E' lui, secondo le autorità cinesi, il responsabile di tutto, forse con l'aiuto dei servizi segreti americani, circostanza che verrebbe dimostrata - nessuno lo dice ma tutti lo fanno intendere - dal fatto che il primo mezzo d' informazione a dare la notizia delle manifestazioni di protesta, lunedì scorso, è stata Radio Free Asia, l'emittente pubblica americana. Difficile che la comunità internazionale accetti la versione cinese dei fatti, fornita oggi da Qiangba Puncog, un funzionario comunista di medio livello e presidente della Regione Autonoma del Tibet. Difficile anche che regga per i 146 giorni che ci separano dall'inizio delle Olimpiadi di Pechino, che appaiono sempre meno come un sogno e sempre più come un incubo. Mentre un imbarazzato Puncog forniva la sua spiegazione dei fatti, i tremila delegati dell'Assemblea Nazionale del Popolo conferivano un secondo mandato di cinque anni al presidente Hu Jintato, 65 anni.

Hu Jintao è stato anche rieletto presidente della potente Commissione Militare Centrale. Come suo vice è stato scelto Xi Jinping, 54 anni, che viene così confermato nel ruolo di successore designato di Hu. Li aspetta un compito difficile, quello di rassicurare la comunità internazionale prima che le contestazioni superino il livello di guardia dando fiato ai sostenitori del boicottaggio dei Giochi. La prossima settimana si terrà a Pechino la prima udienza del processo contro Hu Jia, l'attivista democratico arrestato in dicembre, secondo i gruppi umanitari internazionali, proprio per impedirgli di criticare le Olimpiadi.

Sabato prossimo vanno alle urne gli elettori di Taiwan, l'isola di fatto indipendente che la Cina rivendica, che saranno chiamati anche a pronunciarsi in un referendum dalla formulazione cervellotica ma che Pechino considera un passo verso la "secessione". In India gli esuli tibetani hanno ripreso le proteste e la "marcia di ritorno" in Tibet bloccata martedì scorso dalla polizia. Dal Gansu, una provincia del nordovest a maggioranza tibetana, giungono notizie di proteste nel monastero di Labrang, a Xiahe, e in altre due località alle quali avrebbero partecipato centinaia di monaci.

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