Associazione Fondazione LUCIANO MASSIMO CONSOLI

25 aprile 2008

IL ROMANZO VERO DI WALTER SITI SULLE BORGATE ROMANE

La città contaminata dai virus che proliferano ai suoi margini, connotati dalle forme peculiari del commercio della cocaina più ancora che dal sesso. In «Contagio», uscito da Mondadori, una radiografia «disperatamente» aderente alla realtà, ma sottoposta a vettori romanzeschi

Si potrebbe considerare Il contagio di Walter Siti (Mondadori, pp. 341, euro 18,00) come un nuovo e ammirevole frutto di quella musa urbanistica che ispira, e non solo in Italia, tanta prosa narrativa contemporanea. Fermo restando che l'efficacia della rappresentazione di un certo grado o livello di «realtà» dipende tutto e unicamente dal talento individuale, molte risorse di questo genere letterario contemporaneo risiedono nelle possibilità di feconde contaminazioni tra vari generi di discorso, dal reportage all'indagine storica e sociologica. Senza dimenticare la poesia, proprio nella sua accezione più lirica: perché in ballo, alla fine, c'è sempre un soggetto che conosce attraverso l'imprevedibile lampeggiare delle sue occasioni, e tanto più effettivamente conosce quanto più è capace di perdersi nel labirinto delle apparenze, rinunciare ai suoi presupposti, ridefinirsi senza tregua. Quanto allo specifico argomento del Contagio, le borgate romane, Siti ci avverte in una nota in fondo al volume: se per i personaggi e le loro vicende non ha esitato a ricorrere a tutti i privilegi del romanziere, veri, anzi «disperatamente veri» sono i dati ambientali. In queste righe apparentemente scarne, c'è il nodo centrale di una poetica già lungamente sperimentata.

Semplificando, si potrebbe dire che Siti fa alle borgate ciò che, nei precedenti libri (e in parte in questo) fa alla propria biografia. Anche in questo caso, tutto è «disperatamente» vero, ma lo è al patto, paradossale, di acquisire visibilità solo nel momento in cui è sottoposto ad alcuni potenti vettori romanzeschi, che sono universali come lo sono gli archetipi (i due fari di Siti mi sembrano Nabokov e il Forster degli Aspetti del romanzo). Questi vettori sono, nello stesso tempo, passioni semplici e brucianti e ferrei principi di organizzazione formale della materia. Come l'invidia nel romanzo d'esordio del 1994, Scuola di nudo, o ancora la gelosia nel più recente Troppi paradisi.

Dal punto di vista dei presupposti narrativi e dell'ambiente umano, Il contagio è la diretta prosecuzione sia di Troppi paradisi che della precedente raccolta di racconti intitolati La magnifica merce, quasi a volere completare una trilogia della dipendenza, del bisogno, dell'amore mercenario. Ritroviamo allora «il professore», come lo chiamano con ironia mista a rispetto i borgatari, ancora innamorato senza rimedio di Marcello, splendido culturista sul viale del tramonto, cocainomane per vocazione e marchettaro per necessità. Si direbbe che, per certi scrittori contemporanei, la ripetizione e variazione dello stesso argomento sia una necessità vitale: quasi a volere dimostrare a se stessi, prima ancora che ai propri lettori, come ogni argomento davvero importante corrisponda, in realtà, a un trauma, e come un trauma non faccia che ritornare, configurarsi come ossessione. Da questo punto di vista, Siti procede di conserva con altri grandi spregiatori contemporanei della varietà, come Kenzaburo Oe e Philippe Forest. Solo che, nel Contagio, più che la linearità della vicenda conta lo sguardo panoramico, quasi grandangolare, nel quale domina il tempo presente.

La scelta non solo funziona come un interessante arricchimento della tecnica di Siti, ma è anche singolarmente adeguato alla resa di quei «dati ambientali», cioè la vita in borgata, che effettivamente appaiono all'osservatore come immobili, incapaci di qualunque evoluzione che non sia una improvvisa disgrazia, immersi in una temporalità che sembra consentire gli eventi solo in quanto ripetizione dell'identico. Sfruttando un topos narrativo tra i più malleabili (si pensi solo a La vita istruzioni per l'uso di Perec) l'attenzione si restringe agli abitanti di una palazzina di via Vermeer, campione perfetto di una umanità pure capace di protendersi verso il fuori, di puntare ai quartieri alti. È a questo punto che Siti spreme il massimo di senso dalla metafora del contagio annunciata fin dal titolo. Confrontandosi direttamente con Pasolini, ne capovolge una delle più celebri diagnosi. Da Ragazzi di vita fino a Petrolio, anche Pasolini, ragionò sempre, più che sulle borgate romane in sé, sul rapporto tra queste e l'altra città, tutto ciò che non è borgata. Proprio in Petrolio, tirando le fila di una indagine lunga vent'anni, elesse a luogo-simbolo, valevole per tutti gli altri, l'angolo formato da via Casilina e via di Torpignattara, per descrivere la fine dell'umanità di borgata nei termini di un processo di borghesizzazione di un proletariato ormai travolto dalla società dei consumi.

Siti riparte da questa visione, ma per rovesciarne completamente il senso. Inversa infatti è, a suo parere, la direzione stessa del contagio: non è più la borgata a subire un modello antropologico esterno, è semmai la città a contaminarsi di tutti i suoi virus. Ancora più del sesso, l'incarnazione di questo portentoso principio di permeabilità assoluta sembrano essere la cocaina e le forme peculiari del suo commercio, che più si diffonde nel corpo sociale più tende ad abolire la distinzione tra chi spaccia e chi consuma, tutto livellando nelle elementari dinamiche del bisogno e della soddisfazione. Ed ecco che, sulle orme dei borgatari più irrequieti ed ambiziosi, la narrazione partita dalla palazzina di borgata approda ai quartieri alti, ma solo per scoprire il definitivo orizzonte di senso della ricerca di Siti: l'intera città, vale a dire, considerata come borgata. E se la cocaina, come nel celebre paradosso di McLuhan, è simultaneamente il medium e il messaggio di questa portentosa mutazione antropologica, non meno rivelatrice, nel libro di Siti, appare l'attenta ricostruzione di una oralità interstiziale, cresciuta alla maniera di un abuso edilizio nella terra di nessuno che separava la lingua dal dialetto.

Gli innumerevoli inserti «in presa diretta» incastonati da Siti nel discorso sono forse il più evidente e diretto argomento a favore delle sue ipotesi. Tecnicamente, siamo ormai ben lontani da una nozione storica di dialetto quale è ancora riconoscibile in Pasolini, costretto ad aggiungere un glossario in appendice a Ragazzi di vita. Oggi si tratta di rendere nella scrittura quella specie di italiano strascicato che tante volte fa mostra di sé in tv o alla radio, parlato da tutti i ceti e rapidamente assimilato dagli stranieri. Del vecchio popolano del Belli (o magari, più modestamente, di Pascarella) a questi parlanti sembra rimasta solo la capacità della sintesi memorabile, della semplificazione rivelatrice. Ma il tono fondamentale è davvero quello di un finale di partita, nel quale chi parla non sa e non può che sancire e glossare l'ineluttabile. E mentre i ragazzi dei quartieri benestanti si dilettano a imitare quello stile di espressione, come tanti Marchesi del Grillo fuori tempo massimo, ci accorgiamo che il contagio, vittorioso su tutti i fronti, ha spazzato via ogni immaginazione alternativa, ogni idea della città che non provenga da questi suoi bordi infetti, troppo saturi di realtà - viene da pensare - per essere ancora reali.


Emanuele Trevi

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