Associazione Fondazione LUCIANO MASSIMO CONSOLI

27 ottobre 2015

Dedicato a Pasolini: 40 anni di ricerca della verità ( parte I)

(da www.laici.it)

A 40 anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, è ormai giunto il momento di chiarire definitivamente tutti i retroscena che hanno condotto all'efferato delitto avvenuto presso l'idroscalo di Ostia nella notte del 2 novembre 1975. Cominciamo dunque con l'affermare che Pier Paolo Pasolini  era un intellettuale eclettico, ideatore di un decadentismo di sinistra  intriso di spiritualità, di sincera e profonda religiosità cristiana.  Oggi è facile rievocarlo con accenti di autentica indignazione civile.  Ma negli anni della grande trasformazione italiana, egli fu osteggiato,  diffamato, accusato di essere un corruttore dei giovani. I moderati  disprezzavano l'intellettuale, oltre all'omosessuale; le sinistre non  compresero mai del tutto una riflessione tanto ardita quanto eretica,  senza trascurare il giudizio su una moralità considerata non proprio  irreprensibile. Naturalmente, quel 'Palazzo' che tanto indignava  il poeta friulano, nelle sue varie diramazioni politiche, economiche,  finanziarie e militari non ha mai digerito le invettive e gli attacchi  portati da Pasolini alla morale comune e all'ipocrisia italiana. Pasolini aveva molti nemici. E pochissimi amici. Oltre ai suoi 'ragazzi di vita', egli frequentava soltanto l'attrice e cantante Laura Betti, lo scrittore Alberto Moravia, la famiglia Bertolucci e lo sceneggiatore Vincenzo Cerami.  Forse, era semplicemente un uomo d'altri tempi. E questo suo naturale  temperamento lo condusse a sostenere dispute sempre più aspre con  colleghi, intellettuali e giornalisti. Certamente, il 'Corriere della Sera'  di quegli anni ebbe l'acume di ospitare i suoi articoli più  provocatori, attirando quei lettori dell'alta borghesia attratti dalla  carica trasgressiva di un anticonformista. Ma era soprattutto lo  scandalo incarnato da Pasolini stesso a suscitare discussioni,  più che i contenuti delle sue opere. Rileggendolo a distanza di anni, si  ravvisa facilmente l'ossessione per un'ineluttabile deriva narcisista e  piccolo-borghese della società italiana, denunciata in completa  solitudine. Il suo giudizio di "nuovo fascismo" era teso a  sottolineare risvolti e contraddizioni dalla precisa discendenza  autoritaria, pur nel suo permissivismo sostanziale, nel suo apparente  benessere, nelle sue ipocrisie edoniste, funzionali a dissimulare una  mentalità omologativa, tutta impegnata a 'schermare' e a nascondere una  concezione selvaggia dell'economia e del mercato, all'interno di una  distinzione - posta quasi ai confini del crocianesimo eterodosso - tra  uno sviluppo anarchico e disordinato e un effettivo progresso  antropologico, civile e culturale, della fragile democrazia italiana. In  diverse e memorabili pagine, Pasolini ha irriso il grigiore e la  sterilità, morale e valoriale, dei vecchi notabili democristiani,  ritenendoli, a ragione, una sorta di residuo del passato. Infatti, solo  nominalmente la Dc governava il Paese, poiché in realtà i destini  degli italiani sono sempre stati nelle mani delle multinazionali, delle  corporazioni, delle concentrazioni finanziarie, delle grandi imprese  che, premeditatamente, impediscono ogni possibilità di 'fare', di creare  nuove aziende, di proporre nuovi soggetti economici, o innovativi  prodotti sui mercati, anche grazie a un mondo dell'informazione  trasformato in un vero e proprio accampamento lottizzato di inetti  raccomandati dai Partiti, o dai figli di quelle famiglie borghesi che si  sono ritagliate uno spazio in un ambito, quello editoriale, che ha  sempre abdicato al proprio ruolo civile di 'controllo' del potere.  Munito di grandi intuizioni, Pasolini non trascurava l'apporto  sociologico delle scienze umane, affrontando anche gli aspetti più  deleteri della convulsa trasformazione avvenuta in Italia nel corso  degli anni '60 del secolo scorso. Lo fece sul piano antropologico,  piuttosto che su quello meramente economico. La mentalità appropriativa,  edonista e consumista, stava distruggendo tradizioni e linguaggi che  facevano parte del patrimonio valoriale più profondo del Paese, per  mezzo della penetrante azione della pubblicità e dei mass media. Quel  che ormai contava maggiormente, soprattutto per le generazioni più  giovani, era l'appropriazione di merci sempre più superflue: il trionfo  dei beni 'voluttuari'. Da acuto osservatore del mondo giovanile,  Pasolini soffriva per questa perdita di innocenza da parte della  gioventù italiana, ormai suggestionata dal denaro e da abitudini  forsennatamente consumistiche, oltre che pericolosamente  autodistruttive. Tutto ciò non poteva che condurre a una violenza  gratuita, senza limiti. E quando si verificarono i ripugnanti fatti del Circeo,  in cui alcuni giovani vennero coinvolti in un turbine di violenza,  torture e sesso, le sue più pessimistiche previsioni sembrarono  materializzarsi. Proprio in quel periodo, violenza, delinquenza e  teppismo di strada iniziarono a confondersi, coinvolgendo un gran numero  di ragazzi. La distruzione sistematica operata dalla nuova cultura  consumista non solo faceva 'piazza pulita' delle nostre tradizioni più  autentiche e peculiari, ma si accompagnava a una mostruosa omologazione  della mentalità di massa, che trasformava i cittadini in consumatori  avidi e bisognosi. A causa di tutto questo, venne giudicato 'arcaico' da  molti, "un nostalgico di sinistra", per dirla con le parole dell'amico Alberto Moravia.  In merito al suo assassinio, personalmente sono sempre stato del parere  che esso sia stato pianificato e premeditato con una ferocia e una  brutalità che ha avuto ben pochi precedenti nella storia criminale  italiana. E che, per congegnare un delitto del genere, il movente non  sia stato affatto casuale. Il poeta friulano stava lavorando a un  romanzo che avrebbe riassunto il significato della sua intera opera di  ricostruzione intellettuale, intitolata: 'Petrolio'. Questo  lavoro conteneva - e contiene - le consuete tematiche scandalose a lui  più care, ma possiede anche precisi riferimenti a quei 'poteri forti'  che hanno letteralmente devastato l'Italia: forze invisibili che hanno  profondamente mutato il paesaggio fisico, morale e culturale della  società. Convinzioni che, come confermatomi personalmente da Ninetto Davoli  nel corso di un assolato pomeriggio domenicale trascorso insieme tra le  colline degli Appennini laziali nell'estate del 2004, si sono "regolarmente materializzate". Pasolini  non era interessato a formulare accuse generiche e semplicistiche  contro impersonali macchine criminali del potere, ma cercava di dare un  volto, un nome e un cognome, ai detentori delle sorti della società e  dell'economia italiana, acquisendo documenti, affrontando letture,  ricercando ossessivamente, investigando con autentico impegno civile.  Egli si stava interessando a quei 'giochi' di potere condotti per il  controllo della principale risorsa mondiale posta alla base dello  sviluppo: il petrolio. E la sua attenzione, guarda caso, si rivolse proprio all'Eni e nei confronti dell'uomo che ne aveva assunto la presidenza dopo la morte di Enrico Mattei: Eugenio Cefis. Com'è noto, 'Petrolio'  è rimasto un romanzo incompiuto. Il giorno stesso in cui si seppe che  il corpo massacrato presso l'idroscalo di Ostia era quello di Pasolini  venne denunciato un furto nella sua abitazione: chi erano e cosa  cercavano veramente questi ladri? Quali documenti, o appunti, erano  riusciti a sottrarre? La casa editrice Einaudi pubblicò 'Petrolio' solo nel 1992,  quando ormai la vicenda giudiziaria relativa all'omicidio  dell'intellettuale friulano risultava ormai chiusa da anni. Solo di  recente alcuni particolari e dettagli, colpevolmente trascurati dagli  inquirenti, hanno portato nuovi elementi che potrebbero riaprire il caso  e farci abbandonare definitivamente la comoda versione del delitto  maturato nel mondo 'gay'. Con l'aiuto dell'avvocato Alessandro Bruno e del regista Federico Bruno, il maggior testimone di quei tragici e terribili fatti, Giuseppe Pelosi,  detto Pino, di recente ha cercato di fornire una versione definitiva  intorno all'omicidio dell'idroscalo di Ostia, attraverso la  pubblicazione di un libro dal titolo esplicitamente provocatorio: 'Io so... Come hanno ucciso Pasolini', edito da Vertigo.  Chi ha seguito gli sviluppi delle indagini, delle ricerche e delle  inchieste relative a quel delitto è perfettamente al corrente di come  l'attendibilità di Pelosi, che per lungo tempo si è accollato la  completa responsabilità del fatto, non possa che provocare forti  perplessità. Dubbi che nel corso di questi ultimi anni ho cercato di non  esternare, per questioni di fastidio morale e 'autocensura' personale.  In estrema sintesi, nella sua pubblicazione Pelosi si dichiara  vittima della situazione, sottolineando di non aver potuto parlare in  passato per proteggere la sua vita e quella dei suoi cari. E senza un  minimo di vergogna, ha deciso di schierarsi dalla parte di coloro che  accusano i 'potenti': proprio lui, che avrebbe dovuto essere il primo a  chiarire cos'era accaduto veramente in quella tragica notte dei primi di  novembre del 1975.

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Il delitto Pasolini è divenuto un crimine a uso e consumo di tutti. Per almeno trent'anni, Pelosi ha più volte ripetuto di aver ucciso Pasolini  senza l'aiuto di alcun complice, perché il poeta avrebbe tentato di  violentarlo con un bastone, dipingendolo non soltanto come un cliente  abituale del mercato della prostituzione omosessuale e minorile, ma come  un personaggio dominato da pulsioni violente e sadiche. Solamente di  recente, Pino Pelosi, detto 'la rana', ha rivisto la  propria versione dei fatti, dopo che sono emerse importanti novità  rispetto alla menzognera storia del delitto tra omosessuali raccontata  per decenni, 'mutuando' la propria testimonianza al fine di adattarla  alle scoperte più recenti. Bisogna ammettere che il suo libro - una  sorta di diario degli ultimi mesi che precedettero l'omicidio - parte da  un presupposto assai vicino all'obiettività: "Nulla si fa per caso, tutto è calcolato".  Ma verso la fine del volume viene raccontata la cronaca di un incidente  automobilistico occorso nel luglio del 2011 allo stesso Pelosi e a un suo amico, tale Olimpio Marocchi, che tragicamente vi ha perso la vita. Perché? Quale sarebbe il collegamento di questo fatto con il caso Pasolini?  Si è forse trattato del tentativo di eliminare un testimone divenuto  improvvisamente scomodo? A distanza di tanti anni, chi può ancora avere  interesse a occultare la verità sulla morte di Pasolini? In ogni caso, la narrazione di Pelosi presenta tre 'notizie', rispetto alle sue rivelazioni precedenti: a)  in totale contraddizione rispetto a quanto precedentemente ammesso,  egli racconta di aver coltivato un rapporto di intensa amicizia con Pasolini,  iniziato alcuni mesi prima dell'assassinio. Egli sarebbe stato  'abbordato' dal poeta in piazza dei Cinquecento, a Roma, ma poi tra i  due sarebbe nata una sincera amicizia, una sorta di "amore platonico". Pelosi afferma che questa frequentazione tra lui e Pasolini  era di pubblico dominio e che, quindi, sarebbe convalidabile da  numerosi testimoni ancora in vita. Come giudicare questa clamorosa  novità, di cui anche gli amici più affezionati di Pasolini avrebbero dovuto essere al corrente? Le perplessità non mancano. Tuttavia, qualcosa depone a favore di Pelosi: la sua somiglianza con Ninetto Davoli  è piuttosto evidente. E rende plausibile l'affetto che lo scrittore  friulano può aver riservato nei confronti di un giovane 'balordo'. Pier Paolo non ha mai fatto mistero di frequentare gli ambienti dei "ragazzi di vita", giovani di borgata che vivevano di espedienti commettendo truffe e furtarelli. E il ritratto che finalmente Pelosi offre di Pasolini  si distacca dall'immagine di cliente dei 'marchettari' e sfruttatore di  ragazzini per soddisfare i propri vizi. Insomma, tramite una 'virata'  di 180 gradi, Pelosi si ravvede completamente, smontando quel  giudizio inquietante sul poeta che egli stesso aveva notevolmente  contribuito a diffondere. Pier Paolo, in realtà, era divenuto molto guardingo nella scelta delle proprie amicizie "perché ormai", aveva confessato ad alcuni amici, "cercano soprattutto di 'spillarmi' denaro e non si accontentano più di una pizza e di una birra...". Rimangono perciò in sospeso una serie di contraddizioni: quanto è credibile che Pelosi avrebbe vissuto un'amichevole, ma intensa, relazione con Pier Paolo Pasolini?  E' vero che questa sarebbe durata alcuni mesi, oppure si vuole, per  l'ennesima volta, 'confondere le acque' sul fatto che si stesse  preparando un agguato contro di lui? Come si può ben comprendere, la  lettura di questo testo rischia di risultare un'esperienza persino un  po' 'seccante'...  b) In questo stucchevole capolavoro di manipolazione editoriale, Pelosi a un certo punto tira in 'ballo' Sergio Citti, fraterno amico di Pasolini,  regista, sceneggiatore e per lungo tempo suo collaboratore diretto che,  nel corso del 2005, ha rilasciato un'intervista al giornalista del 'Corriere della Sera', Dino Martirano, in cui ha provato a esporre la propria ricostruzione delle ultime ore di vita di Pier Paolo attraverso una sua personale investigazione. Citti  aveva anche girato un 'filmino', oggi facilmente rintracciabile sulla rete 'Youtube',  sul luogo in cui venne rinvenuto il cadavere, pochi giorni dopo  l'identificazione. Il documento, depositato agli atti giudiziari ma mai  realmente visionato dagli inquirenti - così come nessuno ha mai voluto  ascoltare la testimonianza dell'autore - non solo dimostra l'incuria e  il pressapochismo con cui furono eseguiti, a suo tempo, i rilievi  scientifici fondamentali sulla scena di quel crimine, ma che la versione  ufficiale certificata dagli inquirenti, dalle autorità e dall'opinione  pubblica non corrispondeva assolutamente ai fatti. Citti propose  una versione assolutamente inedita: la cronaca di un'imboscata preparata  con il pretesto della restituzione delle bobine dell'ultimo film di Pasolini, 'Salò'. Nell'estate del 1975, presso gli stabilimenti di Cinecittà, nel quartiere romano del Tuscolano, erano state rubate le 'pizze' di alcuni film di Federico Fellini, Pier Paolo Pasolini e Damiano Damiani. Citti raccontò di esser stato contattato da un losco individuo, tale Sergio Placidi, il quale affermava di aver rintracciato quelle di 'Salò',  rendendosi disponibile a restituirle in cambio di due miliardi di lire.  L'offerta del ricattatore venne comunicata al produttore Alberto Grimaldi, che però era disponibile a 'sborsare' solo una cinquantina di milioni al massimo. Secondo Citti, il ricattatore Placidi era ben conosciuto da Pelosi,  poiché entrambi frequentatori dello stesso bar di via Lanciani, una  strada ai confini del popolare quartiere romano Tiburtino.  Successivamente, gli autori del furto si sarebbero messi in contatto con  lo stesso Pasolini, riferendogli che avrebbero restituito la  refurtiva gratuitamente. Molto probabilmente fu questa la vera 'esca'  per la 'trappola' fatta scattare presso l'idroscalo di Ostia. Proprio la  sera del 2 novembre 1975 - come egli stesso disse a Citti - Pasolini doveva incontrare questi ragazzi per la restituzione della pellicola originale. Citti, insomma, già nel 2005 si diceva convinto che Pelosi era stato manovrato per fare da 'esca', poiché rappresentava il 'tipo' di ragazzo che poteva piacere a Pier Paolo e che, sicuramente, lo avrebbe condotto tra le braccia degli assassini. In pratica, pur con qualche variante, Pelosi oggi 'sposa' la versione di Citti, impegnandosi molto, naturalmente, a sottolineare il proprio ruolo di "esca non consapevole", al fine di negare ogni genere e tipo di responsabilità 'diretta'. Pelosi, invece, conosceva molto bene il gruppo di ragazzi che, soddisfacendo le richieste di Placidi e di un misterioso personaggio che lavorava nel cinema, avevano rubato quelle 'bobine'. Fra questi vi erano i fratelli Borsellno, Giuseppe e Franco, due suoi 'antichi' amici d'infanzia. Qualche anno fa, lo stesso Pelosi ha accusato i due ex amici di aver partecipato alla spedizione punitiva che massacrò Pasolini, ovvero solamente quando potè essere sicuro che questi non potessero più replicare alcunché, essendo deceduti. I fratelli Borsellino, di origini siciliane e più giovani di Pelosi  di qualche anno, erano due soggetti difficili: perennemente  'impasticcati' e tossicodipendenti, sognavano di fare un salto di  qualità nel mondo della malavita romana. Uno dei due, Franco, avrebbe raccontato al Pelosi stesso che la richiesta di riscatto delle 'pizze' rivolta al produttore Grimaldi era stata "bloccata" per l'intervento di alcuni personaggi che, all'epoca dei fatti, gravitavano attorno all'ambiente neofascista della sezione dell'Msi di via Subiaco. Ebbene, sempre secondo Pelosi, i fratelli Borsellino frequentavano quella sezione del Msi  ed erano imbevuti di slogan e parole d'ordine dell'estrema destra. Nei  vari contesti urbani non era certo infrequente che Partiti e  associazioni neofasciste pescassero nel 'mare' della delinquenza e della  piccola malavita di quartiere. Ma le cose non stavano proprio così: al  contrario, qualcuno aveva cercato di spiegare a quelle 'zucche vuote'  dei Borsellino che il film di Pasolini trattava temi di degradazione e delirio antropologico e che la Repubblica di Salò  era solamente un pretesto, un argomento di 'sfondo'. Pertanto, se  volevano continuare a frequentare quella sezione del Partito, avrebbero  dovuto convincere gli autori del furto a riconsegnare le bobine  gratuitamente, scusandosi con l'autore per la tentata estorsione, anche  se operata da altri. Lo scrittore Nico Naldini, cugino di primo grado di Pasolini,  che all'epoca lavorava per una casa di produzione cinematografica, pur  non essendosi mai convinto dalla 'pista' basata sul furto delle 'pizze'  di 'Salò' e dal conseguente ricatto, poiché persuaso che il  delitto sia maturato nell'ambiente della prostituzione omosessuale,  rivelò che quelle bobine erano già state ritrovate in un sottoscala di Cinecittà  e che nessun riscatto fu versato alla malavita romana. Ma ciò supporta  ugualmente l'ipotesi che, in realtà, qualcuno avesse in mente ben altro.  Pelosi ammette di aver conosciuto Sergio Placidi, ovviamente tramite i fratelli Borsellino.  E lo dipinge come un piccolo, ma intraprendente, boss di quartiere,  assai attivo nei 'giri' della prostituzione e dello spaccio di droga.  Costui era anche solito organizzare 'festini' a base di sesso e droga, a  cui partecipavano importanti e noti personaggi della televisione e del  cinema. Nulla di nuovo: ricchi personaggi, aspiranti modelle, conduttori  radiofonici, presentatori televisivi, 'attricette' di cinema e  'fiction' televisive, calciatori e altri sportivi, subrettine e 'veline'  da sempre appartengono a un mondo romano stordito e corrotto, che si  'culla' nel mito della 'dolce vita' di 'felliniana memoria' senza aver  mai compreso come il maestro riminese, tramite quel film, abbia inteso  segnalare proprio il loro paganesimo provinciale e miserabile, immerso  un ambiente imbastardito dal mito del divismo hollywoodiano: scherzi  dell'ignoranza populista italiana, che pone sempre ogni cosa in un unico  'calderone' per la piattezza logica di un cattolicesimo tutto composto  di doppie morali e mezze verità, contraddizioni irrisolte e repressioni  mai 'sfogate'. Non è un certo un caso se, per le mafie e la delinquenza  più o meno organizzata, i settori dell'industria dell'immagine, dello  spettacolo e dell'intrattenimento abbiamo sempre costituito un 'mercato'  di riferimento. Inoltre, non va dimenticato che questo clima da 'basso  impero' si accompagna da sempre a una crisi inesorabile della maggiore  industria culturale della capitale, quella appunto del cinema, che sino  agli inizi degli anni '70 era seconda soltanto a Hollywood. Tale  declino, di qualità e di pubblico, coincide pienamente con il  rinnovamento del sistema televisivo italiano, il quale aprì il mercato  delle frequenze locali ai privati, secondo uno spirito meramente  commerciale della produzione televisiva. Subito egemonizzata dal modello  'berlusconiano', la televisione stava cominciando, proprio in  quegli anni, a prendere il posto del cinema nell'immaginario collettivo.  Tra i principali beneficiari del declino cinematografico italiano  c'erano, naturalmente, i finanziatori dei canali televisivi  'berlusconiani', riconducibili alla loggia P2. E lo spazio  lasciato libero dai grandi produttori, che ben presto si videro  costretti a trasferirsi in Francia o negli Stati Uniti, venne occupato  dai 'dilettanti allo sbaraglio'. In una simile deriva di  'inculturazione', di lenta ma inesorabile e progressiva degenerazione  artistica, la qualità estetica dei film italiani crollò verticalmente. E  non solo i festini a 'luci rosse' divennero all'ordine del giorno:  anche episodi come il furto di bobine divenne una tecnica teorizzata  come percorribile, con la complicità di chi nel cinema ci lavorava. E  infatti, proprio Pelosi ci viene a raccontare che l'idea del furto delle 'pizze' sarebbe stata suggerita a Placidi dallo stesso Citti il quale, essendo un frequentatore assiduo dei festini organizzati dallo stesso Placidi,  aveva finito con l'indebitarsi e col proporre al malavitoso l'idea di  organizzare un furto di pellicole, al fine di ricattare i produttori di Cinecittà.  In buona sostanza, la gestione di questo giro di prostituzione e di  droga, offerta abbondantemente alle 'stelle' della televisione, ha  sempre alimentato un mercato dell'usura e del ricatto, nel quale lo  stesso Citti può essere rimasto 'impigliato', costringendolo a trovare un modo per pagare i propri debiti. Ma è credibile il Pelosi allorquando accusa Citti, ormai deceduto e non più in grado di difendersi da simili cose? Citti è stato un amico molto intimo di Pasolini, oltre che il migliore dei suoi collaboratori. E il modo in cui Pelosi sembra alludere al proprio ruolo nel furto della pellicola di 'Salò', del quale lo stesso Citti  aveva peraltro 'girato' diverse scene, appare quanto meno 'malizioso'.  Oltre a ciò, anche se a distanza di molti anni, è stato proprio Citti a fornire nuovi elementi per riaprire il caso Pasolini, nel tentativo di rimettere in discussione quanto era stato fatto credere al pubblico italiano. Ammesso il ruolo di Placidi  nel tentato ricatto utilizzato per uccidere il poeta, non è forse più  probabile che il complice - o i complici - che lavoravano a Cinecittà fossero altri? E se Citti era estraneo alla vicenda delle 'pizze', perché mai Pelosi  racconta le cose in questo modo? Evidentemente, perché siamo di fronte  al consueto tentativo di depistaggio, magari alla ricerca di mera  visibilità 'mediatica'. c) Pelosi, infine, per la prima volta ammette un proprio ruolo di "esca inconsapevole" per condurre Pasolini  sul luogo voluto, o richiesto, dagli assassini. Sarebbe stato convinto  da alcuni amici - sempre quelli coinvolti nel furto delle bobine  cinematografiche, ovviamente - ad accompagnarlo all'appuntamento, senza  tuttavia essere a conoscenza delle loro intenzioni. All'idroscalo di  Ostia, Pasolini e Pelosi sarebbero stati raggiunti da una Fiat 1500, dai soliti fratelli Borsellino a bordo di una motocicletta e da un'Alfa Gran Turismo,  quasi identica a quella del romanziere. Dalla Fiat sarebbero scesi tre  uomini, che poi hanno messo in atto il massacro. Nel corso di questi  ultimi decenni, Pelosi ha sempre ripetuto di aver investito involontariamente Pasolini,  nel tentativo di fuggire all'agguato per mezzo della sua vettura. Ma la  presenza di un'auto quasi 'gemella' mette in discussione tale  ricostruzione, per decenni fatta passare come l'unica possibile. In più,  Pelosi ci presenta questa sua nuova ricostruzione che entra in  totale contraddizione con quanto aveva già dichiarato precedentemente  nel merito dell'identità degli aggressori di Pasolini, sul loro accento siciliano e sulla Fiat 1500 che lui ricordava targata Catania. Queste dichiarazioni avevano fatto pensare alla presenza di sicari della mafia. Mentre ora, con quest'ultima 'rettifica', i 'riflettori' si spostano nuovamente sugli ambienti della malavita romana. In ogni caso, è mio parere che Pelosi  abbia sempre cercato di perseguire una propria confusionaria politica  di rivelazioni depistanti, alla ricerca di una visibilità mediatica  personale. E che la gran parte di quanto scrive, espone o dichiara sia,  da sempre, poco credibile.

MARTEDÌ 27 OTTOBRE 2015
di Vittorio Lussana 

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