(inchiesta pubblicata sul sito www.laici.it)
GIOVEDÌ 29 OTTOBRE 2015
Cerchiamo, ora, di presentare un nostro 'abbozzo' di ricostruzione. Innanzitutto, risulta interessante notare come intorno alla morte di Pasolini ricorrano sempre gli stessi nomi e come queste persone si conoscano da sempre, o si siano frequentate assiduamente: Antonio Pinna, Giuseppe Mastini detto Johnny lo Zingaro, i fratelli Borsellino, Sergio Placidi, lo stesso Pino Pelosi. Un'umanità in cui troviamo un po' di tutto, a livello delinquenziale: dallo spaccio di droga allo sfruttamento della prostituzione, dalla rapina al pestaggio, dallo 'scippo' ai piccoli furti. I mondi dell'estremismo eversivo di estrema destra, della criminalità comune e della piccola malavita di quartiere si sovrappongono e si confondono. Tutto ciò ha sempre contribuito a confondere le idee sulle ragioni per cui è stato ucciso Pier Paolo Pasolini. Proviamo a elencare le diverse 'piste' seguite sino a oggi: 1) quella del crimine consumato sullo sfondo dello scontro tra bande 'rosse' e 'nere' nel corso di una fase storica che già preludeva, o preannunciava, una recrudescenza terroristica di stampo ideologico-eversiva; 2) quella del delitto maturato negli ambienti della prostituzione omosessuale e giovanile; 3) quello della difesa estrema da un tentativo di rapina degenerata in una rissa; 4) quella della 'missione punitiva' di un gruppo di balordi o di giovani teppisti; 5) quella del tentativo di ricatto mediante il furto delle 'pizze' di 'Salò'. Ognuna di queste ipotesi porta a congetture di cronaca 'nera' che tanto 'sfiziano' il lettore 'medio', poiché ne solleticano la morbosità. Ma, nel complesso, appaiono tutte alquanto lacunose, create quasi apposta per dar vita a quel classico 'giuoco di società' sempre utile a depistare l'opinione pubblica. Proviamo perciò a ricostruire il delitto ripartendo da quell'Antonio Pinna che, all'improvviso, scompare nel nulla: costui, all'inizio della propria 'carriera' di malvivente, era stato coinvolto nello 'strano' sequestro di persona di un farmacista. E manteneva dei legami con la discussa banda dei marsigliesi che, prima di quella della Magliana, spadroneggiava per Roma. Agli inizi degli anni '70 del secolo scorso, la 'piazza' capitolina della delinquenza era composta da una microcriminalità quasi dilettantesca. Ma la situazione cambiò radicalmente allorquando giunsero alcuni elementi dalla Francia, in particolare dalla città portuale di Marsiglia: tutta gente totalmente priva di scrupoli, pronta a sparare contro chiunque con pistole e mitragliatrici. Si trattava di personaggi che avevano vissuto ai margini della criminalità marsigliese 'vera', quella impegnata nei grandi traffici internazionali di stupefacenti. Emarginati dagli affari più lucrosi dai 'padrini' marsigliesi e corsi, essi iniziarono a specializzarsi nelle rapine a mano armata, mettendo a segno una serie di colpi spettacolari, che diedero persino il 'la' a un nuovo genere cinematografico: quello 'poliziottesco'. Proprio al principio del decennio, il già noto Albert Bergamelli prese i suoi primi contatti su Roma con un altro spietato criminale marsigliese: Jacques Berenguer. Ai due si unì ben presto il bresciano 'Maffeo', al secolo Lino Bellicini, da poco evaso da un carcere portoghese. Il nucleo della prima vera 'banda' criminale romana si era ormai formato. Oltre alle rapine a mano armata, i marsigliesi erano soliti dedicarsi anche al traffico e allo spaccio di eroina e di cocaina. E, in seguito, anche al sequestro di persona, che negli anni '70 divenne praticamente una 'moda'. I marsigliesi fecero fare un notevole salto di qualità alla piccola delinquenza romana delle borgate. E quando il gruppo italo-francese venne sgominato dalle forze dell'ordine, essi furono sostituiti da criminali autoctoni, che andarono a formare l'ormai tristemente nota banda della Magliana, raccogliendone l'eredità. Non si trattava di mafia allo stadio embrionale, o di forme di delinquenza dai pericolosi tratti settari, né di criminalità organizzata ben strutturata, bensì di una malavita di alto livello, capace di accumulare profitti da attività delinquenziali spregiudicate. La criminalità romana, all'improvviso, aveva cambiato 'pelle'. Il fenomeno dei marsigliesi risultava di difficile definizione, dal punto di vista criminologico: essi coniugavano il senso degli affari con l'audacia delle loro imprese. A ciò si aggiunga che questi banditi sapevano organizzarsi attraverso il metodo della 'compartimentazione', potendo sempre contare, cioè, su un'organizzazione centralizzata in grado di rimediare, sempre e comunque, 'covi' e dimore, acquistati o affittati per proteggere la latitanza dei propri membri. Nel febbraio del 1975, una prima famosa rapina in piazza dei Caprettari fruttò un magro bottino e l'agente Domenico Marchisella, accorso sul posto, vi perse la vita. Come si può ben comprendere, si trattava di banditi disposti a far fuoco sia sugli agenti di polizia, sia su innocenti passanti. I marsigliesi stessi, desiderosi di 'far scuola', avevano aggregato attorno a essi i personaggi più pericolosi della capitale, fra cui Laudavino De Sanctis, detto 'Lallo lo zoppo', che ben presto fondò una propria 'banda', dedita a sequestri di persona, che divenne tristemente nota per aver assassinato alcuni ostaggi. Altro elemento promettente era tal Danilo Abbruciati, ex pugile che aveva scoperto la propria 'vocazione' alla rapina. Abbruciati si distinse ben presto come uno dei boss 'testaccini' della banda della Magliana, rafforzando la propria posizione all'interno della 'mala' romana grazie a potenti 'protezioni'. La banda della Magliana iniziò a dominare la 'scena' della capitale sul finire degli anni '70, grazie alla conquista del monopolio della distribuzione e dello spaccio degli stupefacenti. Questa posizione consentì loro di trattare da pari a pari con la mafia siciliana, la Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo e la 'ndrangheta calabrese. Sul piano strettamente operativo, non mancherà la collaborazione da parte di giovani neofascisti romani, anche se alcuni elementi della banda intratterranno rapporti pure con ambienti di sinistra, in particolar modo dell'Autonomia. La rete di rapporti dei boss della banda arrivò a condurli sino alle stanze del potere: Vaticano, servizi segreti egemonizzati dalla P2, palazzi romani della politica, settori della magistratura e delle forze dell'ordine. E, naturalmente, a compiacenti canali di riciclaggio del denaro 'sporco', sostenuti da personaggi più o meno rispettabili. L'accesso a questi canali finanziari era a sua volta favorito dal boss mafioso Pippo Calò, padrino della cosca palermitana di Porta Nuova, tesoriere dell'organizzazione con il compito di mantenere i rapporti con gli ambienti di potere, al fine di riciclare i proventi delle attività di 'Cosa nostra'. Anzi, col passare degli anni, mi sono convinto che proprio Pippò Calò fosse la vera 'mente strategica' della banda della Magliana, poiché risultava in amicizia con Danilo Abbruciati, anch'egli in 'odor di mafia'. Fra le altre amicizie 'interessanti' c'è poi da annoverare un certo Toni Chicchiarelli, il falsario autore del comunicato brigatista del lago della Duchessa in cui venne annunciata l'eliminazione dell'onorevole Aldo Moro durante i giorni del suo sequestro, operazione finalizzata a depistare le forze dell'ordine impegnate nella ricerca del 'covo' in cui era tenuto prigioniero il presidente della Dc. E' stato comprovato da tempo che quest'ultima 'mossa', quella del comunicato n. 7 delle Br, sia stata organizzata proprio in seno ai Comitati di crisi del ministero degli Interni, infarciti da affiliati alla loggia P2 e messa a disposizione dell'esperto del Dipartimento di Stato americano, Steve Pieczenick. In ogni caso, Chicchiarelli era un altro delinquente comune di difficile decrittazione, per le sue frequentazioni e strane amicizie. Secondo alcuni 'ambienti', risultava coinvolto anche in un losco traffico di armi gestito da elementi deviati del servizio segreto civile. In rapporti con alcuni boss della banda della Magliana e con altri giovani neofascisti dei Nar, non disdegnava frequentazioni anche con alcuni 'autonomi' romani. Oltre che nell'operazione del falso comunicato brigatista, il suo nome ricorre nelle indagini per il delitto del giornalista Mino Pecorelli. I molteplici messaggi ricattatori delle sue imprese lo portarono presto verso la sua esecuzione, avvenuta per mano di ignoti nel novembre del 1984. Comunque sia, nel corso del 1975 i marsigliesi trovarono in lui un prezioso alleato per le loro imprese, soprattutto per la condivisione dei contatti con turchi e boliviani, l'acquisto delle partite di droga e l'organizzazione dei sequestri di persona. Altro criminale di ragguardevole statura era Francis Turatello, che dopo essersi accreditato anche all'estero mediante alcune rapine spettacolari, era riuscito a farsi una posizione nella città di Milano attraverso la gestione di lucrose attività, come il traffico di droga, le bische clandestine e la prostituzione. Questo giovane malavitoso milanese era riuscito a creare un gruppo in grado di 'tener testa' persino al boss mafioso di Corleone, Luciano Leggio, detto Liggio, che resosi latitante aveva dato vita a un pericoloso racket di sequestri di persona nel capoluogo lombardo. Si dice inoltre che Turatello fosse anche figlio naturale di un potente boss della mafia italoamericana: Frank Coppola. Costui era un vecchio 'padrino' della mafia direttamente discendente dal gruppo di boss di 'Cosa nostra' americana, nomi del calibro di Lucky Luciano, Joe Adonis e Frank Costello, esiliati dagli americani stessi e trasferiti nel loro Paese d'origine, l'Italia, dopo i 'servigi' forniti durante la seconda guerra mondiale. Dotati di un incontestabile senso per gli affari, questi boss furono coloro che, sostanzialmente, imposero e diffusero, nel nostro Paese, il traffico di stupefacenti. Tra costoro si distinse ben presto proprio il padre di Turatello, il quale iniziò a gestire i propri traffici da una villa di sua proprietà situata lungo il litorale laziale. Sicuramente, il gangster milanese ha potuto condurre i propri loschi affari 'millantando' la prestigiosa parentela e la protezione dei padrini italoamericani. Ma la concorrenza con la versione siciliana di 'Cosa nostra' cominciò a destare 'tensioni', dovute soprattutto alla competizione sul mercato della droga. Venne dunque deciso di inviare a Roma un killer, tale Toni Riccobene, col 'preciso mandato' di assassinare Turatello. Ma quest'ultimo, che si attendeva tale 'mossa', riuscì ad anticiparla alleandosi con la banda dei marsigliesi e col potente boss della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, il quale stava sfidando, a Napoli e su tutto il territorio della Campania, lo strapotere delle cosche subordinate a 'Cosa nostra' siciliana. Com'era prevedibile, l'accordo tra Cutolo e Turatello creò un innovativo e potente 'cartello' per il controllo del traffico della droga sull'asse Milano-Roma-Napoli. Ma le fortune del bandito milanese Turatello e della sua banda iniziarono ben presto a declinare, legando il proprio nome anche ad alcuni dei più 'torbidi' misteri italiani. Ricapitolando: Bergamelli, Turatello, Abbruciati, i marsigliesi e la banda della Magliana facevano tutti parte di una criminalità attiva e spietata, capace di esercitare un pesante controllo sul territorio, di lanciare arroganti sfide alle autorità, che per lunghi anni sembrarono impotenti di fronte al loro imperversare e che, al contempo, sembrava godere di protezioni e rapporti politici di potere. In Italia, il nome di Albert Bergamelli era già salito alla ribalta delle cronache nel lontano 1964, quando insieme a una banda composta da elementi francesi aveva messo a segno una spettacolare rapina alla gioielleria Colombo in piena via Montenapoleone, a Milano, a pochi passi dalla questura. Una sfida di questo genere alle autorità non era mai stata lanciata. La banda, capeggiata dal Bergamelli stesso, aveva fatto uso di tecniche che appartenevano all'armamentario militare più che a quello delinquenziale: si erano messi a sparare apparentemente all'impazzata, seminando il panico fra la folla, mentre due vetture erano state utilizzate per bloccare il traffico per un lungo tratto della via. Tutti i membri della banda vennero presto catturati dalla polizia, grazie anche alla collaborazione dei servizi di informazione francesi. Ma quel che più sconforta è il fatto che questo Bergamelli, dopo aver trascorso solo pochi anni nel carcere ad Alessandria, abbia ben presto ottenuto un regime di semplice 'soggiorno obbligato' nel modenese, che gli consentì di fuggire facilmente e di poter proseguire la propria 'carriera' criminale. Prima di tornare in Italia, il suo nome era addirittura diventato il più ricercato d'Europa grazie alle clamorose imprese della sua banda del 'Mec', che riuscì a farsi notare in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Secondo Arrigo Molinari, all'epoca funzionario della questura di Milano e in seguito questore di Genova, nonché affiliato alla loggia P2, la rapina di via Montenapoleone fu "la prima vera azione terroristica in Italia, il primissimo atto della strategia della tensione". Quell'impresa, così spettacolare da essere percepita come una sfida alle autorità e alle forze dell'ordine, doveva servire a 'silurare' il capo della polizia italiana, Angelo Vicari. Era il 1964, l'anno del Piano Solo, architettato dal comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, Giovanni De Lorenzo, già direttore del Sifar, che sottoscrisse l'accordo con la Cia per la formalizzazione della 'Stay Behind' e di 'Gladio'. Tutti questi rapinatori, criminali e mercenari vennero immessi in circolazione secondo un preciso scopo di destabilizzazione, per la creazione di un clima di insicurezza sociale, che avrebbe dovuto giustificare la richiesta di maggior ordine da parte dei cittadini. Inoltre, dopo l'indipendenza algerina dalla Francia e lo scioglimento dell'organizzazione terroristica e colonialista 'Oas', molti ex legionari ed ex militanti erano divenuti disponibili sul 'mercato'. A Lisbona era sorta, già nel 1962, una centrale terroristica sotto la copertura dell'agenzia di stampa Aginter Press, su iniziativa di ex militari dell'Oas. Oltre a essere in collegamento con l'estrema destra europea e internazionale, questa centrale offriva i suoi servigi alla Cia, all'organizzazione Gehlen e ad altri servizi segreti della Nato, oltre che a quelli dei Paesi colonialisti e fascisti. Secondo lo scrittore e saggista Cristiano Armati, lo stesso Bergamelli doveva le sue rocambolesche e fortunose evasioni agli ex camerati dell'Oas. Insomma, tutta un'intera generazione di criminali era stata aiutata, o addirittura 'assistita', da questi ex legionari, mercenari e malavitosi esclusi dai giri della malavita francese. Forse, alcune delle nuove bande, fra cui quella di Bergamelli, avevano anche finalità politiche in funzione anticomunista e antisovietica. La collocazione ideologica di questi nuovi criminali, dotati di una propensione alla violenza sconosciuta alla vecchia malavita italiana, è sempre apparsa evidente. Lo stesso Bergamelli dichiarò di essere "un convinto neonazista", mentre il suo amico milanese Turatello girava con una catena d'oro a forma di svastica appesa al collo. Fascista e ammiratore di Mussolini era pure Franco Giuseppucci, un 'boss' che ha sempre cercato di mantenere 'in piedi' la banda della Magliana in vari modi. Così come fascista e amico di neofascisti era l'altro boss del gruppo, Danilo Abbruciati. Ci si può chiedere se non sia stato l'influsso dei marsigliesi, le cui gesta erano presumibilmente ispirate dall'Oas, a determinare gli orientamenti ideologici delle bande che hanno imperversato a Roma e a Milano in quegli anni. La documentazione giudiziaria e le testimonianze ci dicono che i vari Bergamelli, Berenguer, Turatello, Giuseppucci e Abbruciati appartenevano tutti alla razza dei malavitosi 'comuni', talvolta associati ai 'politici' per finalità soprattutto patrimoniali. Si chiarisce, insomma, per quale motivo si sia insediato a Roma un miscuglio di neofascismo, criminalità di alto livello e piccola malavita. Nota era l'ammirazione dei giovani neofascisti romani per i marsigliesi: uno dei massacratori 'pariolini' del Circeo, Andrea Ghira, disse alle vittime delle sevizie di essere Berenguer. Il culto della violenza si trasformava, dunque, in emulazione. Con il fiorire della lucrosa industria dei sequestri di persona venne, inoltre, alla luce una contiguità fra 'pezzi' dello Stato e bande come quelle dei marsigliesi, di Turatello e della Magliana, che poste al servizio di alcune potenti 'consorterie' misero a disposizione la loro particolare professionalità. A rileggere le cronache di quegli anni, la sequenza dei sequestri di persona è impressionante: durante tutti gli anni '70, oltre ai marsigliesi, ai mafiosi 'corleonesi' del boss Liggio, a frange della camorra e ai calabresi dell'ndrangheta, si dedicarono a tale forma di criminalità anche i malavitosi romani consorziati con la banda della Magliana, la banda Turatello, i banditi sardi e altre bande della criminalità comune, come quelle di Vallanzasca e di Lallo 'lo zoppo'. Alcune 'squadre' politicizzate, di estrema destra e di estrema sinistra, effettuarono persino sequestri di persona a scopo dimostrativo, o per autofinanziamento. Eppure, il semplice movente pecuniario, così come l'azione politica, non spiegano appieno la diffusione del fenomeno. Per effettuare e gestire i rapimenti era necessario disporre di un'organizzazione sufficientemente strutturata, con una divisione di compiti ben precisa, in cui non doveva mancare il danaro per poter acquistare gli appartamenti da allestire come prigioni. Pertanto, appare assai probabile che i sequestri di persona servissero soprattutto a spargere terrore tra i ceti abbienti, alternando la paura dell'estremismo eversivo 'nero' con quello del terrorismo di estrema sinistra, al fine di alimentare la cosiddetta "strategia della tensione". Serviva a colpire gli avversari politici o, nel campo degli affari, a esercitare pressioni indebite. Serviva anche a riciclare capitali illeciti, o di discutibile provenienza. Non stupisce che la banda dei marsigliesi, a un certo punto, abbia deciso di abbandonare le troppo rischiose rapine a mano armata, in favore del nuovo tipo di attività. Nell'arco di un anno, fra il 1975 e il 1976, questo gruppo portò a termine cinque sequestri, con relativi riscatti. Fu il pm romano Vittorio Occorsio a occuparsene per primo, avviando un'inchiesta che si concluse con lo smantellamento della banda dei marsigliesi. Occorsio era un magistrato scrupoloso che, pur avendo coltivato a lungo la pista anarchica nel corso delle indagini per la strage di piazza Fontana e ad altri attentati romani successivi, si era poi fatto notare come abile indagatore proprio delle organizzazioni neofasciste a tinte terroristiche, come per esempio Avanguardia Nazionale, sciolta nel 1975. Albert Bergamelli, quando venne arrestato a Roma in un appartamento del 'residence Aurelio', con toni minacciosi evocò la protezione della sua persona da parte di una "grande famiglia", che gli avrebbe assicurato una sostanziale impunità. Inizialmente, si era pensato a una protezione dei marsigliesi, oppure della mafia. Ma le cose si erano via via 'ingarbugliate'. Occorsio individuò, invece, un collegamento specifico tra la massoneria deviata, il neofascismo romano e i marsigliesi: verrà assassinato il 10 luglio 1976 da Pierluigi Concutelli, leader del gruppo neofascista 'Ordine Nuovo'. Poco tempo prima di morire fece alcune importanti confidenze a un giornalista de 'l'Unità', Franco Scottoni: una parte consistente dei riscatti provenienti dai sequestri di persona era stata destinata all'acquisto della sede dell'Onpam (Organizzazione nazionale per l'assistenza massonica) promossa da Licio Gelli. In particolare, i sequestri compiuti dai marsigliesi lasciano intravedere numerose tracce di 'Propaganda 2': l'avvocato Gian Antonio Minghelli, segretario della loggia, fu sospettato di aver riciclato i proventi dei rapimenti. E anche il padre, Osvaldo Minghelli, risultava affiliato alla P2. Il responsabile dell'operazione che portò all'arresto di Bergamelli era il funzionario di pubblica sicurezza Elio Cioppa, che venne trasferito al Sisde, il servizio segreto civile. E alcuni sequestrati appartenevano proprio alla loggia 'gellina'. Amedeo Ortolani era figlio di Umberto, principale collaboratore di Licio Gelli con 'amicizie' in Vaticano. Iscritto alla P2 era anche Alfredo Danesi, il re del caffè. Mentre il negozio del gioielliere Giovanni Bulgari si trovava sotto la sede del 'Centro studi di storia contemporanea', la 'copertura' della loggia di Gelli e Ortolani. Non è mai stato fugato il dubbio che, in realtà, alcuni di quei sequestri fossero stati simulati per celare altre manovre criminali, oppure al mero scopo di ricavare denaro liquido. Per esempio, la società di cui era presidente Amedeo Ortolani, la Voxon, navigava in cattive acque e rischiava il fallimento. Ebbene: dopo la vicenda del suo rapimento, la Voxon venne miracolosamente 'salvata' attraverso consistenti finanziamenti pubblici, tali da consentire all'azienda il pareggio di bilancio. L'esistenza della loggia 'Propaganda 2', il suo potere e le sue diramazioni non erano ancora venute alla luce. Ma l'attivismo di Gelli era già all'attenzione di inquirenti ed efficienti funzionari di polizia. Era noto, per esempio, il suo passato di collaborazionista dei nazisti durante l'occupazione dell'Italia settentrionale negli anni 1943-'45. E l'astro nascente della banda della Magliana, Danilo Abbruciati, aveva rivelato a un altro esponente del consorzio criminale romano, poi collaboratore di giustizia, Antonio Mancini, che Bergamelli godeva di potenti 'aderenze', poiché il 6 ottobre 1975 aveva partecipato all'attentato contro l'ex vicepresidente democristiano del Cile, Bernardo Leighton e di sua moglie. Nel tentato delitto, che fallì, erano coinvolti anche alcuni sicari della Dina, la polizia politica del dittatore cileno Augusto Pinochet, insieme ad alcuni neofascisti italiani come, per esempio, Stefano Delle Chiaie. Qualche anno dopo, emersero i saldi legami fra la loggia P2 e le dittature latinoamericane, fra cui quella dei militari argentini. Infine, anche il banchiere Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano ritrovato impiccato sotto al ponte dei 'Frati neri', a Londra, nel giugno del 1982 era notoriamente affiliato alla loggia massonica P2.
di Vittorio Lussana
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