Cari Amici;
Domani MARTEDI' 31 MARZO 2009 nel tredicesimo anniversario della scomparsa del poeta Dario Bellezza, la Associazione ‘Fondazione Luciano Massimo Consoli’e tutti coloro i quali intenderanno ricordare la figura umana e artistica di Bellezza si ritroveranno alle ORE 12.00 presso la tomba del grande letterato romano al Cimitero Acattolico per gli Stranieri di Testaccio attiguo alla Piramide Cestia.
Siete tutti invitati a partecipare.
Daniele Priori [ufficio stampa Associazione ‘Fondazione Luciano Massimo Consoli’]
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Nel Proclama sul fascino, suo ultimo libro apparso postumo, Dario Bellezza ancora si riconosce, e si costringe, nei panni di un Amleto dolorosamente consapevole e testardamente avido. La sofferenza lo piega, ma anche lo ravviva, lo spinge. L’”osanna” è mortificante, il “tradimento” s’incista fascinoso nell’anima smarrita. Ancora una volta, per esistere, anche e soprattutto nel dispiacere e nella delusione, bisogna che la vita oscuramente e ambiguamente colpisca. È la sottrazione a generare il richiamo. È la mancanza che s’appella alla felicità, la convoca, la fa presente nell’assenza. E il pensiero e l’immaginazione trascinano in un’ininterrotta negazione che, a sua volta, continuamente afferma l’essere e lo stare e il sostare: così le tenerezze, le attese, i ritorni, i soprassalti di un incontro, di un innamoramento che persiste.
È un Amleto malato anche questo di ironia, che rende mai veramente disperata la disperazione, che annienta il bisogno di annientamento o lo assottiglia, lo disperde per un eccesso di vista e di sentimento. Resistono l’innocenza e la grazia, come impossibili mete e come onnipresenti fantasmi, anche mentre nullificano o umiliano ogni evento e gesto e intento. Il peccato e la sconfitta,continuamente accusati e chiamati, sopravvivono come un basto portato sulle spalle fragili, come una maschera che copre il viso e che non è dato strapparsi. Così la morte non è traguardo e quiete, invece abbaia e ulula minacciando e atterrendo i vivi. Così la poesia cerca se stessa e si compie lasciandosi dietro le “immagini del dolore”.”Lontano profugo di un mondo remoto” il poetasi esprime tradendosi, scrivendo “poesia contro la poesia”, cercando nel “mondo infetto” una impossibile sognata “santità”.
Anche nella sua ultima opera l’uomo e l poeta Bellezza si professano e si provano nell’interezza di chi sente il vivere insieme come condanna e come dono. “Malato della malattia della morte” l’uomo si chiede trepidando: “Fino a quando? Fino a quale apocalisse?” trovando fin dentro l’angoscia “la tregua al nascere e al morire”, mai rassegnato all’”eventualità livida / di non chiudere la porta / al vento del domani”. Il poeta, a sua volta, non smette di gridare nel deserto la sua “legge di gravità”.Vale questo fin dagli inizi per Bellezza poeta. Sono numerosi gli autori che presiedono alla sua formazione, subito così fervida e declamata. La sua tradizione, così come suggeriva Raboni, “può andare da Catullo a Góngora e a Donne, da Rimbaud fino a un certo Penna, certo Betocchi”. Si possono aggiungere, dal Pasolini della “disperata vitalità” alla Morante abbacinata dall’adolescenza innocente. E come non evocare, prima di ogni altro, il Baudelaire del tedio invincibile, della sensualità esacerbata, e il Genet della purezza nel crimine! Ma la singolarità di Bellezza sta nell’essere,dopo tanti avvicinamenti e fascinazioni, subito e giovanissimo dotato di una propria voce, la cui grana viene da un’occlusione che è anche uno scioglimento.
A descrivere la presenza inquietante di Bellezza, la complessità del suo talento e del suo temperamento, basti quel che ne scrisse Enzo Siciliano in un ricordo apparso subito dopo la morte del poeta: “Bellezza era un piccolo borghese e sapeva farsene vanto. Viveva la sua stigma sociale come fosse l’ermellino del Re Sole. Era sardonico e tenero, infelice, terroristico, penitenziale e sfrenatamente prodigo… sapeva ridere di sé, ma anche cadeva nelle sue stesse trappole come fosse stato le mille miglia lontano da sé… La sua stagione fu quella di una scoperta esistenziale, fisiologica, violenta e tracotante – la scoperta della sua stessa dissipatezza e dispersione. Forse peccò… per peccati che non gli appartenevano e che mimò prendendoli a prestito: ma lo fece con tale passione da essersi perduto nel doppio aspetto di una verità che era anche spettacolo”.
Dunque, la maschera e lo spettacolo. Dunque, l’autenticità di una testimonianza inautentica, la verità toccata nella recita. La prima raccolta di versi di Bellezza apparve nel 1971. Il suo nome circolava già da qualche anno nei luoghi della letteratura. I tracciati dei suoi versi, “volutamente confusi e luminosi di ritmo” – secondo quel che ne scrive ancora Siciliano, che fu tra i primi lettori di Bellezza – parvero subito come un’espressione fra le più colme e fagocitanti di quegli anni. Pasolini, nel risvolto di quel primo libro, lo promosse il “miglior poeta della sua generazione” e affermò che “faceva la spia di una vita mal spesa”, insieme promuovendolo e imprigionandolo. Quelle poesie, come ben vide Giuliano Gramigna, appartenevano “con crudità e intensità viscerali” al tempo in cui erano state composte. Succedevano alle chiusure e ai divieti delle avanguardie letterarie, s’esprimevano in un tempo di mutamenti e di subbugli. La voce di Bellezza si levò assordante e suggestiva, insolente e derelitta, a dire del corpo e della diversità, a far esplodere un io sregolato, anche regressivo, portato agli estremi della confidenza e dello svelamento. Valeva quel che Pasolini avrebbe scritto, di lì a qualche anno, per il terzo romanzo di Bellezza, Il carnefice: “Nel magma e nella poltiglia filtrano nettari e narcotici di grande qualità”. Vale quel che ne scrisse, ne Il pubblico della poesia, Franco Cordelli: “Armato di inerme tracotanza Bellezza entra nella poesia di forza, senza nessuna eleganza e ponderazione. È sostenuto da una paranoide convinzione-decisione di dover aver diritto alla parola (poetica) comunque e a tutti i costi, per una specie di furente investitura narcisistica”.
È un Narciso che si specchia in un’acqua scura il poeta di Invettive e licenze, e non smette di patire un istante; pure in ogni istante, processando se stesso e il mondo che si porta dentro e lo occupa e lo strazia, non lascia l’illusione e il desiderio. Che pretende questo ragazzo-vecchio, questo deluso-illuso? Certo ha intravisto, chi sa dove, chi sa come, la felicità, l’allegrezza, e s’è promesso certi e durevoli amori, mai incrinate voci, mai la malattia, la fiacchezza, il dubbio, l’assillo. Esiste ed è esistito il Paradiso, ed è l’attesa delusa di un tale traguardo a generare rancore, ad accrescere l’orrore per quel che tocca del quotidiano e fa male. Da qui l’inferno, un inferno affollato di volti ghignanti, di richiami funesti, di amori difettosi, di vizi che azzoppano.Per Bellezza vale l’allegoria baudeleriana. Il poeta è l’albatro, imprigionato e deriso, il remingante con le ali legate. La sua vera sola diversità consiste della sua solitudine, della voce che coglie una presenza e la significa. Il fiume dei versi scorre verso acque fonde, verso approdi remoti e segreti. La voce ora s’estende, ora si contrae, percorre arterie pulsanti, acque limose. Il mimo gesticola il dolore, l’invidioso patisce l’invidia, la vittima è anche il persecutore.
È che in Bellezza vive e si mostra una creatura fortemente stretta al proprio corpo, carcerata nel grumo dei propri visceri. Ha pensieri e lingua irrefrenabili. Si pronuncia in lui un testimone segreto e spietato, che osserva quello stesso corpo, ne disprezza la fiacchezza e la precarietà, e irride e vanifica ogni pensiero e parola.
Un maleficio tutto della modernità presiede alla sua poesia. Nel chiuso di un recinto s’interroga e si risponde, si perseguita e si alza. In questo recinto echeggiano i suoi gridi, i suoi lamenti; da ogni parte specchi occhiuti ne ripetono i gesti e le smorfie. La sua è una recita “forsennata” ed è anche la sua verità e la condanna della sua “assurda sopravvivenza”. Il suo dialogo, “stringente”, è quello che tiene con se stesso: “Amo me di un amore sviscerato / e proprio per questo non mi amo”; insiste: “La vita vissuta equivale all’Inferno”. Un adolescente resiste fin dentro la pena gridata e lamentata di Bellezza; e porta in sé ancora le voglie e le pretese del bambino, del “fanciullo beato”, e di questi la “presenza fitta”. Così, mancandogli quella pienezza, la sola che rende vivi e interi, l’uomo-poeta corre verso l’angoscia e la sregolatezza, dentro una sessualità tenuta per deviazione e peccato.
Nella commistione della satira, nella mescolanza di sciattezza e di sublime, di tenerezza e di rabbia si stempra il tragico e viceversa. Nei versi che ora si stendono, ora s’inerpicano, il poeta “discreto infantile / tessitore d’inganni” diviene voce che allo stesso tempo esalta e strema la persona: mentre l’accosta, l’assalta, la interroga, la smentisce. In questa guerra portata contro se stesso, ma anche contro la rassegnazione e la resa, la poesia tocca il suo solitario traguardo.In tutti i suoi libri – e sono otto quelli di poesia, nove i romanzi, e poi alcuni testi teatrali in versi – Bellezza accerchia le sue ossessioni, le dilata, le espande. Senza mai risparmiarsi, in un bisogno incontenibile di dire tutto, di colmare ogni spazio e vuoto della confessione e della confidenza.
Una vera necessità genera e sovrasta l’intera sua opera , così come una incontenibile intelligenza – legane con l’essere del mondo – la spinge e la motiva.
Ma tutti i suoi libri sono anche affollati di persone e di oggetti. I luoghi sono scenario e fondale di un dramma insoluto. Gli eventi sono quelli di una quotidianità estesissima e varia: odori, tanfi, colori, stanze, vicoli, piazze, e le ore della notte e del mattino, i mercati chiassosi, e i volti intravisti, corpi inseguiti, risvegli cupi, insonnie temute.
Di libro in libro, di verso in verso, Bellezza riflette e reinventa la sua esistenza fatta di affanni, popolata di ossessioni, ma anche di innamoramenti, di nostalgie, di tenerezza. Ed è il legame furibondo per Elsa Morante, maestra-madre-amante, la pena-invidia-compassione per Pasolini assassinato, l’invocazione infinita e vana di un Dio insieme benefico e castigante. Ed è la compagnia cara e vigilata dei gatti, l’ammirazione e lo stupore davanti al corpo di ragazzi amati, ai quali lo lega un desiderio colmo di passione e di compassione. E il piacere che gli viene dai luoghi, che abita e traversa – Roma con le sue piazze, i suoi vicoli, il cumulo dei passati, le vaste memorie, le malinconie, le accidie; la Calabria delle montagne selvose e dei cieli luminosi; il lago ombroso di Bolsena; la Berlino di una notte da incubo, e ancora. E la ressa degli oggetti, il susseguirsi dei gesti, dei discorsi. E lo sdegno per un mondo stravolto da guerre e da rovine. E il dolore che travalica se stesso divenendo teatro comune e destino irresolubile.
Insomma un procedere, ora affannoso, ora faticosamente misurato, in versi che sanno anche accorciarsi, chiudendosi in un lindore a volte persino penniano, quasi a raggiungere un’accettazione e una pazienza. E sul fondo e in fondo un’energia smisurata che, fino alla fine – in quegli Appunti per un romanzo in versi che chiudono il suo ultimo libro e nei quali si propone di unire prosa a poesia per un tutto che lo accolga e lo concluda – comprova la sua allegria di restare tra i vivi. A questa allegria alludeva Pasolini quando scriveva di Bellezza: “La sete di vita - in questo clericale ingordo – è ben più forte di ogni sofisma di morte; e il senso della forma è più forte dell’insincera e scandalosa voglia di distruggerla”. Per questo, e anche per questo, Dario Bellezza ha un suo posto, appartato e sicuro, fra i poeti del nostro secondo Novecento.
[per gentile concessione di Sandro De Fazi, introduzione di Elio Pecora a: Dario Bellezza, POESIE 1971-1996, Mondadori 2002]
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