L'aspetto della camera da letto della morta - La fotografia con dedica a D'Artagnan - Antonietta, la figlioccia giovane e carina - I primi fermi - Le prime ipotesi
Non sono solo le contraddizioni dell'amica della morte a generare dubbi e sospetti in coloro che sono presenti sulla scena del delitto. In quelle ore drammatiche, c'è qualcosa di strano che aleggia nell'appartamento dei coniugi Scala. Poliziotti e giornalisti avvertono che c'è un che di inspiegabile comportamento nei protagonisti di questa vicenda: è palpabile come una reticenza, come un impaccio, se non una preoccupazione, sia da parte della Buonporto, che dei coniugi Scala. Sono due cronisti presenti sulla scena del delitto a percepirla per primi ea formulare le domande giuste per farla affiorare. I dovuto, infatti, nell'ispezionare la stanza in cui le due donne convivono e dove è stato composto il corpo della vittima – «una cameretta da zitellone, con due letti in finta noce, un comodino, un'immagine del Sacro Cuore, eccetera» ¹ –, non possono fare a meno di notare che
Se non fosse sufficiente la scarsa femminilità e civetteria dell'ambiente, ciò che maggiormente attira l'attenzione degli astanti è una fotografia posta su un comò, che ritrae una bella e florida ragazza, con in calce una dedica: «Al suo D'Artagnan. Antonietta». Le domande allora iniziano ad essere meno sfumate, più dirette e insistenti. Si scopre che la Meravigli ha una figlioccia, una giovane ragazza di 28 anni di nome Antonietta Blendig (a seconda delle testate si trovano varianti del cognome come Blendich, o Bledic), originaria del Friuli. Di lei scrive, ad esempio, il cronista di «L'Unità»:
Che la ragazza possa avere un peso specifico importante in questa vicenda lo dimostra il fatto che il giornalista punti, con ingenua e immotivata credenze, a un'immediata conclusione della vicenda, tanto da terminare il suo pezzo con la frase:
Anche il cronista di «Il Messaggero» in chiusura del proprio articolo cita la ragazza tracciando le prime mosse a caldo degli inquirenti:
Per coloro che con la lettura dei quotidiani si stanno appassionando alla vicenda della fruttivendola uccisa sulla soglia di casa, la natura del rapporto esistente tra Agostina Meravigli e la giovane Antonietta inizia ad essere profilato con maggiore chiarezza nei giornali del lunedì. Scrive «Il Messaggero» del 9 febbraio:
Il quotidiano torinese del pomeriggio «Stampa Sera», che riporta per la prima volta la vicenda con un trafiletto in prima pagina, aggiunge qualche ulteriore dettaglio:
Al di là di ciò che scrivono i giornali – ognuno con ipotesi, supposizioni e interpretazioni arbitrarie delle informazioni che trapelano dal commissariato Salario dove il Buonporto e la Blendig sono trattenute per essere interrogate, è il caso di fissare qualche elemento che possiamo ritenere certo. Agostina Meravigli è una donna lesbica, come di lì a qualche giorno verrà chiaramente ribadito da un articolo del settimanale «Cronaca nera»:
Inoltre, non ci vorrà molto a comprendere che il “D'Artagnan” della dedica di Antonietta è proprio Agostina, con la quale la ragazza ha una relazione intima e sentimentale, che è nota sia alla Buonporto, che ai coniugi Sala. Negli oggetti che la polizia sequestra la notte dell'omicidio nella stanza da letto condiviso da Agostina e Luisa, c'è anche una fotografia che ritrae le due assieme a Antonietta, sedute sul bordo di una fontana. Grazie per aver letto il terzo capitolo di questo racconto true crime ! I prossimi capitoli saranno fruibili solo sottoscrivendo un abbonamento a pagamento. Se vuoi condividere questo capitolo con qualcuno a cui pensi possa interessare clicca sul bottone qui sotto. (Il prossimo capitolo sarà pubblicato il 16 luglio) 1 Anonimo, Hanno ucciso D'Artagnan , su «Cronaca Nera», Anno IV, nr. 7 del 14 febbraio 1948, pag. 1. 2 Ivi. 3 Anonimo, Freddata sulla soglia di casa da un giovane in divisa militare , su «L'Unità» dell'8 febbraio 1948. 4 Ivi. 5 Anonimo, Una negoziante di frutta uccisa a rivolterate da uno sconosciuto che l'aveva seguita a casa , su «Il Messaggero» dell'8 febbraio 1948. 6 È la ragione per cui la maggior parte degli articoli che compaiono sulla stampa popolare in cui si parla di retate in luoghi all'aperto e irruzioni nel caso in cui private frequentate da omosessuali siano a seguito di un omicidio. La prassi era quella di cercare il colpevole nel “giro” della vittima. Questo è il motivo per cui la maggior parte dei delitti rimanevano insoluti. Come si può leggere nell'occhiello dall'articolo riprodotto qui sotto recuperato nella cronaca milanese del quotidiano politico «Avanti!» del 16 novembre 1946, il provvedimento di polizia scatta dopo un delitto, quello dell'ex ferroviere Vonchia. Per questi omicidi di omosessuali è stato coniato il neologismo “omocidi” dall'attivista Massimo Consoli, ad essi lo studioso Andrea Pini ha dedicato una ricerca e un saggio intitolato Omocidi. Gli omosessuali uccisi in Italia , Roma, Stampa Alternativa, 2002. 7 Anonimo, Hanno ucciso D'Artagnan , su «Cronaca Nera», Anno IV, nr. 7 del 14 febbraio 1948, pag. 1. |
Questo è il blog della 'Fondazione Luciano Massimo Consoli, associazione culturale nonviolenta, antipedofilia e senza fini di lucro, per promuovere a tutti i livelli la cultura della non discriminazione di ogni diversità sopra tutto di genere e l'amore e il rispetto per essa come un bene e un valore positivo per la persona e per la società.
10 luglio 2025
Da Le RADICI DELL'ORGOGLIO Lo strano caso di Agostina Meravigli, detta D'Artagnan - Capitolo III
Lo strano caso di Agostina Meravigli, detta D'Artagnan - Capitolo II
Il cadavere di Agostina - I testimoni - Il misterioso militare vestito kaki - Le molteplici versioni della Buonporto - Il fermo e le prime ammissioni
CAPITOLO II
Anche la donna rimasta illesa urla e dopo pochi secondi la porta dell'appartamento dei coniugi Scala si apre. Sulle scale gli spari sono rimbombati fragorosi e alcuni vicini si affacciano e raggiungono l'andito buio di fronte alla soglia dell'abitazione al primo piano. Qualcuno affermerà di aver sentito uno scalpiccio giù per la rampa delle scale: un uomo in fuga, l'assassino. È il cognato ad aprire la porta. Per Agostina non c'è più nulla da fare, il suo corpo, che giace in una pozza di sangue, viene trasportato in casa e composto su uno dei due letti della stanza in cui le donne convivono. Il viso viene coperto con un panno, il petto con un asciugamano appallottolato, per celare allo sguardo «sull'abito grigio le vaste macchie di sangue». Qualcuno dà l'allarme e di lì a poco giungono sul luogo del delitto i funzionari del commissariato Salario («il dott. Morlacchi e il dott. Passaro» ¹ ) e, al loro seguito, com'è consuetudine, alcuni cronisti di nera . La Buonporto, per quanto ancora sotto shock, è la prima ad essere interrogata. La sua prima versione è quella di aver visto dell'assalitore solo la mano, sporta dall'angolo del muro, illuminata dalla fiammata degli spari. Della presenza nel palazzo di quest'uomo presto si scopre che ci sono ben tre testimoni. Il primo è un ragazzo sui vent'anni, Ideale Toccafondi, «un giovane che ammazza la disoccupazione vendendo le sigarette proprio all'angolo della via» ² , all'incrocio tra viale Regina Margherita e via Salaria. Toccafondi dichiara alla polizia di aver veduto uscire dal portone un individuo «con passo affrettato, ma tuttavia abbastanza tranquillo perché potesse destare l'allarme». È un suo conoscente, Francesco Sola, di professione barista, abitante anch'egli al numero 8, ad attrarre la sua attenzione uscendo poco dopo dal palazzo urlando: «Quello ha sparato due colpi di pistola dentro il n. 8!». Il Sola ha infatti udito gli spari – che il Toccafondi non può aver sentito – e ha intuito che la sagoma indistinta e furtiva che sta uscendo di fretta, e con deciso vantaggio, sia quella dello sparatore. In un articolo dell'«Avanti!» sì dadi:
Dichiara di aver visto il presunto omicida anche Giuseppe Pietri, che si è recato in visita al cognato, proprietario del caffè Cometti, il cui appartamento è esattamente dirimpetto a quello degli Scala. Pietri dice di aver incrociato nello scendere le scale le due donne – è lui l'uomo con cui hanno scambiato lo sbrigativo saluto – e, poco dopo, di aver visto un uomo salire verso il primo piano. Lo sconosciuto viene descritto come un giovanotto sui 25 anni, moro, un metro e settanta di statura, colorito pallido, vestito con un cappotto marrone di foggia militare con tanto di stellette. La prima ipotesi che viene formulata dalle forze dell'ordine è quella di un agguato per rapina: le due donne stavano rientrando dalla loro bottega con gli incassi della giornata. I congiunti della Meravigli mostrano di gradirla, perché garantirebbe di chiudere in fretta la faccenda: non può che essere un disperato alquanto maldestro che non ha saputo gestire un atto più grande di lui e che è fuggito spaventato. A queste testimonianze si adattano in un primo tempo anche Luisa Bontempo, dichiarando, tra l'atro, di non aver mai visto prima quello sconosciuto. D'altronde, di fatti inspiegabili ne accattono: la signora Italia Meraviglia, sorella della vittima, ricorda un episodio inquietante accadutole, qualche anno prima, nel dicembre del 1945, quando, sentendo suonare il campanello, si era avvicinata alla porta e aveva chiesto chi fosse, ottenendo come risposta soltanto «Telegramma!». Ma appena aperta la porta era stata assalita da un uomo che con un “pugno di ferro” ⁴ le aveva procurato una ferita alla testa suturata con molti punti e una settimana di ospedale. Il fatto non era mai stato chiarito dagli inquirenti che vi indagavano sopra. La tesi della rapina è andata a maschio, però, viene gradualmente messa da parte: è pur vero che l'omicida non ha scambiato alcuna parola con le due amiche, non ha avanzato alcuna richiesta e ha senz'altro sparato per uccidere. È qui accade qualcosa di curioso e decisamente strano, perché solo a questo punto la Buonporto si sovviene di un fatto avvenuto nel pomeriggio. I giornali dell'8 febbraio, il giorno dopo l'omicidio, raccolgono il racconto della donna in versioni alquanto differenti l'una dall'altra. «Il Messaggero» scrive:
Nella descrizione del misterioso sconosciuto riportato da «Il Messaggero» non si può non riconoscere l'identikit del giovane visto uscire di corsa dal portone del numero 8 di viale della Regina Margherita dai testimoni di cui abbiamo già detto qui sopra. Nella versione dei fatti raccolta dal giornalista di «L'Avanti», organo del Partito socialista italiano, si legge:
Anche il quotidiano comunista «L'Unità» riporta a proprio modo la testimonianza del Buonporto:
Che il militare ghiotto di datteri possa essere l'assassino ne è convinto anche il giornalista di «Cronaca nera», un'altra rivista specializzata nel genere criminologico e giudiziario:
Le evidenti contraddizioni nel racconto della Buonporto devono aver insospettito i poliziotti presenti sulla scena del delitto, perché a tarda notte, quando il corpo della povera fruttivendola è già stato trasportato all'obitorio dietro autorizzazione dell'autorità giudiziaria per essere sottoposto ad autopsia, l'amica della morta viene fermata e condotta in commissariato per essere nuovamente interrogata. L'unico giornale che riesce a includere la notizia è «L'Avanti», che scrive:
È in questo primo colloquio con gli inquirenti che la Buonporto, stanca e ancora scioccata per l'accaduto, inizia a fornire dettagli sulla personalità della sua compagnia di stanza e di lavoro. 1 Anonimo, Una negoziante di frutta uccisa a rivolterate da uno sconosciuto che l'aveva seguita a casa , «Il Messaggero» dell'8 febbraio 1948, pag. 2. 2 Anonimo, Una donna uccisa per le scale da una rivolterata esplosale in pieno petto , «Avanti!» dell'8 febbraio 1948, edizione romana, pag. 2. 3 Anonimo, Una donna uccisa per le scale da una rivolterata esplosale in pieno petto , «Avanti!» art.cit. 4 Anche detto tirapugni, arma impropria formata da quattro anelli di metalli in cui si mettono le dita a pugno. 5 Anonimo, Una negoziante di frutta uccisa a rivolterate da uno sconosciuto che l'aveva seguita a casa , «Il Messaggero» art. cit. 6 Anonimo, Una donna uccisa per le scale da una rivolterata esplosale in pieno petto , «Avanti!» art.cit. 7 Difficile dire se sia la Buonporto a non raccontare il vero sull'aggressione del 5 dicembre 1945 (la data del 6 dicembre 1946 è inesatta) di cui fu vittima Italia Meravigli, attribuendola alla sorella, o se i fatti sono stati compresi male dal giornalista che ha raccolto la testimonianza. Si vede qui sotto il rapporto originale sull'agguato del 1945. 8 Anonimo, Freddata sulla soglia di casa da un giovane in divisa militare, «L'Unità» dell'8 febbraio 1948. 9 Anonimo, Hanno ucciso D'Artagnan , «Cronaca nera», Anno IV, nr. 7 del 14 febbraio 1948. 10 Anonimo, Una donna uccisa per le scale da una rivolterata esplosale in pieno petto , «Avanti!» art.cit.
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3 aprile 2025
IVAN TEOBALDELLI NON C'E' PIU'
Ci ha lasciato Ivan TeobaldelliScrittore, poeta, critico d'arte, è stato fondatore, editore e direttore di «Babilonia», la prima rivista di cultura omosessuale pensata per un pubblico generalista. Aveva 76 anni.
Ho intervistato più volte negli ultimi anni Ivan Teobaldelli. La prima volta al telefono, nel novembre del 2021, per raccogliere la sua testimonianza e i suoi ricordi per la seconda stagione del podcast Le Radici dell’Orgoglio. Poi nel 2022 in un altro paio di occasioni per farmi confermare alcune informazioni e intuizioni nell’ambito di ricerche che stavo svolgendo sugli ultimi anni Settanta, quando militava nel Collettivo di liberazione sessuale fondato da Elio Modugno dentro Democrazia Proletaria. La Newsletter di Le Radici dell'Orgoglio è una pubblicazione supportata dai lettori. Per ricevere nuovi Post e supportare il nostro lavoro, considera l’idea di diventare un abbonato gratuito o un abbonato a pagamento. Ivan, in che contesto sociale, politico e culturale nasce «Babilonia» nel 1982? Ho conosciuto Felix Cossolo in occasione di un campeggio gay organizzato in Grecia da un’associazione omosessuale ellenica nel 1978. Lui era il responsabile di «Lambda» e di lì a poco avrebbe litigato con Pezzana¹ per un’intervista fasulla a Marco Pannella², che ad Angelo non era andata giù, l’aveva presa come una provocazione. Io già scrivevo come collaboratore per «Lambda», ma è stato in Grecia che abbiamo avuto per la prima volta l’occasione di conoscerci di persona. Siamo diventati amici cominciando a fare cose assieme, come ad esempio il saggio Cercando il paradiso perduto³ sull’esperienza dei campeggi gay, di cui entrambi abbiamo curato i testi. Credo sia stato in Grecia che per la prima volta ci siamo detti: «Quel foglio [«Lambda»] non ha la dignità di un organo di comunicazione importante. Perché non proviamo a fare un vero giornale?». In quegli anni entrambi avevamo un impiego: lui alla Fiat, in modo sempre più saltuario e precario, perché aveva scelto la visibilità e l’impegno in anni davvero difficili per i militanti omosessuali; io, invece, avevo il mio posto all’INAM di Milano, vinto con concorso nazionale ancora da studente. Lì c’è stato il salto nel vuoto: abbiamo avuto il coraggio di licenziarci e di farci dare la liquidazione, poco più di tre milioni a testa. Iniziare l’avventura di un giornale con tre milioni a testa era da matti. Per di più non avevamo mai fatto un giornale prima... «Lambda» era poco più di un foglio... Fatto sta che Felix ha lasciato Torino, si è trasferito a Milano, l’ho fatto venire a casa mia, dove ha abitato per sei mesi, prima che gli trovassi casa non molto lontano da me, grazie a un’amica che andava via e lasciava il suo appartamento. Dove abitavi allora? La zona in cui abitavo era viale Tibaldi, dove c’era il Cristallo⁴. Io stavo in via Zamenhof, che dava su Corso Ticinese dove passava il tram... Quindi la prima redazione è stata a casa tua in via Zamenhof? Sì, il numero zero lo abbiamo fatto per terra in casa mia, appiccicando le immagini con la colla sui menabò. Quando l’interno era pronto sono andato a cercare un tizio che sapevo essere un buon grafico. È lui che ha realizzato la prima copertina di «Babilonia» con tutte le lettere della testata che sembrano sbandare di lato e al centro questa bella immagine di Schifano... Una copertina a dir poco iconica. Come è nata? Avevo un volume di fotografie di Mapplethorpe⁵ che mi piaceva molto. Avevo scelto questa immagine di un uomo di colore fotografato seduto e di spalle che diedi a Corrado Levi⁶. Corrado Levi la portò a Roma e la dette a Schifano⁷. Schifano, in un momento di suo delirio artistico, prese un pennarello rosso e disegnò un gran cazzo con le palle, così... [disegna col dito nell’aria] Fu anche realizzata una maglietta da quella copertina... Una maglietta meravigliosa. Dovrei averne ancora una da qualche parte. Tu dici «La diedi a Corrado Levi», quindi c’era una rete amicale intorno che vi aiutava in questa impresa... Corrado veniva dal Fuori!, era di Torino, conosceva bene Felix, conosceva bene me... ci conoscevamo tutti... Pezzana, Francone, tutti... Tu in che anno sei arrivato a Milano da Città di Castello? Nel 1974. E quando sei arrivato a Milano hai cominciato a... Non subito, ma nel giro di un paio di anni ho cominciato a vivere la dimensione sociale della mia omosessualità, entrando nel collettivo fondato da Elio Modugno⁸... Il CLS? Sì, il Collettivo di liberazione sessuale - un collettivo della nuova sinistra - e da lì ho iniziato a conoscere tutta la cosiddetta comunità gay milanese e a fare attivismo. Era lo stesso anno in cui in via Morigi i COM⁹ avevano occupato la casa e, quindi, vidi il primo spettacolo di Mieli... La Traviata Norma? Sì. In seguito, poco dopo la sua apertura, ho lavorato a Radio Canale 96, la prima radio della sinistra extraparlamentare, antecedente a Radio Popolare, dove ero responsabile della rubrica giornaliera degli spettacoli, per la quale, assieme a una ragazza di nome Lucia, intervistavo gli attori e i cantanti di passaggio sulla piazza di Milano. Ho lavorato due anni alla radio. Ti ricordi come sono arrivati i COM in Canale 96? Sì, e ricordo che i COM avevano una rubrica autogestita il sabato sera. Erano decisamente scatenati, Mario Mieli era nel suo momento migliore, stava per pubblicare il suo libro Elementi di critica omosessuale... erano anti-radicali, molto animosi contro Pezzana... e volevano essere di sinistra [N.d.R. Pezzana nel 1974 aveva federato il Fuori! al Partito radicale], non riformisti, ma rivoluzionari. Volevano essere un gruppo svincolato e libero, nell’ambito della sinistra extraparlamentare. Erano sguaiati, eccessivi e semi-travestiti, mentre dall’altra parte c’erano gli omosessuali con la barba... Tipo Elio Modugno... Sì, tipo Elio, che era l’esatto contrario. Una delle cose che ho tentato di ottenere in seguito con «Babilonia» è stata la convivenza - che sembrava impossibile - delle due anime del movimento. Ricordo che nei primi tempi ero terrorizzato dalle checche, io non mi riconoscevo in loro. Andavo in via Morigi e c’erano queste matte che ti saltavano addosso... io ero terrorizzato perché non mi sentivo così e loro non rappresentavano quello che provavo... Eppure loro rivendicavano questa modalità come una forma di lotta… E ne avevano tutte le ragioni e io ho cercato con «Babilonia»... è stata una sfida e in qualche modo credo di averla vinta... di accogliere tutte e due queste anime, che quasi sembravano un ossimoro, l’una il contrario dell’altra. Anche oggi io rivendico come legittime sia la checcaggine che la militanza seria: ci vogliono tutte e due. Va detto che in quei momenti lì era più violenta e più efficace la checcaggine perché scioccava la gente... gli altri militanti al confronto sembravano persone normali. Io ho una mente che ama l’ironia, il sarcasmo, la trasgressività... in seguito mi sono travestito anche io da donna, ne ho fatte di tutti i colori, però allora ero terrorizzato... Lo posso immaginare, Mario era un campione della provocazione. Era troppo per me all’inizio. C’è una cosa molto importante da ricordare: «Babilonia» esce da subito in edicola... Era quello che volevamo… …perché «Lambda» al massimo la trovavi nelle librerie della sinistra. Non aveva nessuna distribuzione. Noi, invece, trovammo un distributore di riviste pornografiche, Bartolo Miani, che diventò il terzo socio del giornale soltanto per poterci offrire la distribuzione. Grazie a lui arrivavamo in edicola. Però in edicola eravamo collocati tra le riviste porno… Me lo ricordo benissimo. C’erano anche molti abbonati, a cui inviamo la rivista in buste assolutamente anonime, che il più delle volte avevano come destinatario una tristissima e anonima casella postale. Non avevamo pubblicità, anche perché - con nostro disappunto - all’inizio tutti gli stilisti avevano paura del target gay. Non avevamo alcun finanziamento pubblico o dai partiti. Non abbiamo avuto mai niente. Siamo stati di un’incoscienza... non saprei neppure come definirla... vertiginosa! Anche perché nel vostro caso non era un passatempo, era il vostro lavoro. Certo. E se siamo riusciti a portare avanti il giornale è stato grazie a tutte le iniziative che abbiamo inventato e organizzato, come i campeggi e le feste... I campeggi ci aiutavano molto perché nel giro di un mese facevamo un po’ di milioni che poi venivano immediatamente spesi per pagare i debiti coi tipografi... I lettori non vi aiutavano? Raccoglievamo cassa con gli annunci e facendo promozione diretta al giornale nei locali, alla Nuova Idea di Milano, ma anche nei locali di Bergamo e Brescia. Ciò che ci ha sostenuto tantissimo è stata l’invenzione della guida dei luoghi e dei locali gay, che avevamo chiamato «Italia Gay». Di «Italia Gay» ne vendevamo... mi sembra che la prima edizione abbia venduto diecimila copie e dentro c’era anche la pubblicità di molti dei locali che erano presentati nella guida. Con questa guida abbiamo pagato i costi e i debiti del giornale. Noi non avevamo una lira, nessuno ci dava il benché minimo contributo, che ne so?… per la carta… mai un soldo né dallo Stato né dai partiti. Niente. Però siete riusciti a rimanere in edicola per anni e anni... I collaboratori come venivano scelti? I collaboratori all’inizio arrivavano dal giro delle persone amiche. Erano giornalisti moto validi, come Mauro Gaffuri, che era già affermato come giornalista... Fu anche direttore all’inizio. Sì, per un numero o due... Credo che ci fosse stato un primo direttore che aveva avuto però subito dei problemi con la testata per cui lavorava, poi Mauro per un paio di numeri e poi... Poi ci sono stato io, quasi subito... quindi tra i primi collaboratori ci sono stati Mauro, che si firmava Blanche Dubois, come il personaggio di Tennessee Williams in Un Tram che si chiama desiderio, poi Emilio Papini, Marc De Pasquali… Mario Mieli ha scritto nei primi due numeri, poi purtroppo è morto... Inoltre c’erano dei ragazzi che ci aiutavano per le traduzioni, del tutto gratuitamente. Io, Felix e Mario Anelli, il terzo pilastro di «Babilonia» che svolgeva il ruolo di segretario di redazione, una persona squisita, ci davamo allora 500 mila lire al mese a testa e per circa dieci anni siamo andati avanti così... a Milano! Ci pagavi giusto l’affitto e poco altro... va beh... Un’altra cosa che ha aiutato «Babilonia» è stata l’invenzione della Libreria Babele, che fu sin dall’inizio un successo, perché era frequentatissima, era l’unica libreria gay in Italia... Com’è nata l’idea della Babele? L’abbiamo pensata Felix ed io: eravamo convinti che quella di una libreria era una buona idea e che sarebbe stata utile anche per la distribuzione di «Babilonia». In noi c’era una rivendicazione uno scopo che sorreggeva tutto il nostro impegno: volevamo associare una dimensione culturale all’omosessualità, che fino ad allora era stata vista come una cosa che riguardava quattro depravati che andavano a battere ai cessi della stazione o che veniva identificata con i travestiti. Noi volevamo dare uno spessore culturale all’omosessualità. Come lettore ciò che apprezzavo di «Babilonia» era che era si presentava come una rivista molto contemporanea, legata allo spirito del suo tempo. Era molto pop. C’era musica, cinema, arte… era intellettuale senza essere intellettualistica. Certo, non aveva la raffinatezza di alcune riviste francesi - mi sfugge il nome di una che usciva in meravigliosi volumi trimestrali, dove scrivevano grandi intellettuali… -, però per l’Italia era un punto di riferimento. Soprattutto per gli omosessuali della provincia: gente disposta a fare anche 50 chilometri col pullman o il treno per andare in un’altra città, comprare «Babilonia», nasconderla dentro un altro giornale e portarsela a casa. Quante copie riuscivate a vendere? Sette, otto mila all’inizio… Non male. No, infatti. Pian piano abbiamo cominciato ad avere qualche riscontro positivo. A Firenze, ad esempio, c’era Marcello, il proprietario del Crisco e del Tabasco, che presto è diventato un grande sponsor di «Babilonia». Per anni ha acquistato in ogni numero pagine pubblicitarie per spingere i suoi locali. Lui e sua sorella Mara. Marcello è stato uno dei nostri più importanti sostenitori. Veniva anche ai campeggi gay con il suo fidanzato, prendeva un bungalow, era una persona squisita. Mi è molto spiaciuto quando è morto di Aids… Quella dei locali è stata in generale un’ottima fonte di sostentamento per il giornale: negli anni Ottanta spuntavano come funghi e di pubblicità su «Babilonia» se ne vedevano molte… Parecchi poi non pagavano… mai… lasciamo perdere… Senti parliamo dei campeggi. Nel 1979 viene organizzato il primo campeggio in Italia. Già all’inizio hai detto di aver conosciuto Felix al campeggio internazionale in Grecia l’anno prima, che era stato un piccolo disastro di organizzazione… Fu più una diaspora che un campeggio. In Italia ci furono i primi due campeggi a Capo Rizzuto organizzati da Felix. Tu ci andasti? Io ci ero passato, anche perché poi abbiamo scritto assieme il libro Cercando il paradiso perduto… Con le foto di Giovanni Rodella. Alcune di Giovanni, altre di altri partecipanti… Il primo campeggio di cui mi occupai dell’organizzazione venne organizzato vicino a Ortona, in Abruzzo. Come organizzatore ho fatto quattro campeggi, impegnato dalla mattina alla sera, un casino… Ricordo che, nell’imminenza dell’uscita del primo numero di «Babilonia», Felix era andato a cercare il campeggio. Era dicembre e lui si è involato lasciandomi sul groppone tutte le attività per la pubblicazione del primo numero. Era il primo numero, era importantissimo ed io ero solo. Intendi il numero 1, non il numero zero. No, il numero 1, che fu in edicola nel gennaio del 1983, quello con la copertina di Querelle de Brest. Ero in crisi perché mi sentivo abbandonato. Ricordi l’accoglienza del primo numero? Come andò? A Milano alcuni giornali si accorsero di noi e iniziarono a seguirci. Poi, sai, noi abbiamo sempre fatto dei bellissimi dossier, delle inchieste che poi venivano riprese anche da altre testate. Inoltre, a spargere il verbo, c’erano le feste… Che sono cominciate quasi subito. Subito, prima ancora che uscisse il giornale in edicola ci fu una festa per il numero zero al Teatro Tenda, a cui prese parte anche Mario Mieli, con un vestito marocchino meraviglioso, che poi mi regalò, un vestito tutto ricoperto di perle, un antico abito tradizionale da sposa… Quindi ci fu una festa sin dal numero zero. Al Teatro Tenda di Milano, dove venne… non so se l’hai conosciuto, io lo chiamavo «il comunista mite»… Mario Spinella, un intellettuale finissimo, che ci seguiva. Poi c’era Pigi… Pigi Mazzoli? Sì, vestito da marinaretto di Brest. I travestimenti di Pigi erano spettacolari. Mitiche sono state anche le feste di «Babilonia» alla Nuova Idea. Il collegamento con quel locale come nacque? Beh, era il locale gay più grande di Milano. La proprietà era a dir poco losca, ma riuscivamo a conviverci. C’erano tre sale da ballo! Era pazzesco, me lo ricordo. C’era una sala di liscio enorme e poi la sala della disco music. C’era sempre una miscela umana sconvolgente e coinvolgente. Noi organizzammo delle feste meravigliose invitando deejay molto importanti. La affittavate? Certo. E veniva chiunque. Veniva Giuni Russo, veniva Fiorucci, Ivan Cattaneo… una volta mi pare che sia venuta pure Patty Pravo. Ricordo delle feste meravigliose. C’era questo nostro amico, Giorgio Funari, uno scenografo che si occupava di allestimenti con i fiori. Lavorava per grossi eventi della moda, per le cene milanesi più mondane di allora. Ricordo che trasformò la Nuova Idea in una giungla, con tutti questi ragazzotti bonazzi vestiti da Tarzan e le travestite vestite da Jane. Io ero il presentatore, non ti dico il ridere. In un’altra occasione abbiamo organizzato l’elezione di «Mister Babilonia» e ci saranno state 2.500 persone. Che meraviglia. Che manicomio! Siamo nei primi anni Ottanta e di lì a poco sarebbe arrivato l’incubo dell’Aids. Il terzo numero di «Babilonia» del marzo 1983 uscì con una copertina che titolammo Cancer Gay?, perché all’estero già si parlava di questo argomento. Lo leggevamo sui giornali americani, su quelli francesi. C’era già questa cosa. Quindi la prendeste seriamente? Da subito. L’ultimo campeggio che organizzammo fu a Porto Sant’Elpidio nell’‘84 e fu a dir poco problematico. Arrivavano gli olandesi e i berlinesi già tutti sieropositivi… come facevi a non prenderla seriamente? Abbiamo dovuto optare per la decisione molto sofferta di non fare più campeggi, perché il rischio di contagio si era alzato esponenzialmente. Sai, lì non si faceva altro che trombare dalla mattina alla sera… Come fai ad essere complice di una promiscuità che porta con sé così tanti rischi. Che poi non la puoi impedire, ci mancherebbe, però… Fu una forma di autocensura? Certo. Ricordiamoci che allora non c’erano cure, solo, di lì a poco. l’AZT, che però ha causato molte morti. Ho quasi più amici morti di AZT che a causa del virus stesso. Che poi si trovava solo in Svizzera. Era caro, introvabile e t’ammazzava. Quelli sono gli anni in cui inizia a prendere forma l’Arcigay. Quale è stato il rapporto tra «Babilonia» e Arcigay? Noi eravamo molto amici di don Marco Bisceglia. Io stesso sono stato segretario nazionale di Arcigay. Mi sembra che al terzo o quarto campeggio organizzato dal giornale sia venuto anche Grillini. Arcigay è cresciuto con noi e ci fu una divisione di compiti: noi ci occupavamo di cultura e informazione, loro di socialità. Loro avevano le tessere e i contatti politici… certo che quei torsoli del PCI non aiutavano… facevano la guerra a Grillini. Anche noi non siamo mai riusciti ad avere un rapporto privilegiato con il PCI. Erano più bigotti dei democristiani in quel momento. Ho fatto un’intervista a Menduni, che era il presidente di Arci Nazionale… Era in gamba… …e lui dice che l’avvicinamento del PCI alla questione omosessuale avviene esclusivamente per un calcolo di tipo politico, perché il Partito radicale, che aveva candidato già nel 1976 persone omosessuali, alle politiche del 1979 passa da quattro a 19 parlamentari. Il PCI invece aveva avuto una battuta d’arresto. Pare che da questo sia scattata l’esigenza di dialogare con i froci. Però l’interesse elettorale non vuol dire accettazione della questione. Certo che no. Ti ricordi quella lettera all’interno del PCI che scrisse quell’omosessuale… era un rospo che non riuscivano a digerire. Com’è stato il rapporto di «Babilonia» con gli intellettuali? Buono. Pensa che la prima guida gay fu recensita da Pier Vittorio Tondelli. La prima intervista che feci per il giornale fu con Sylvano Bussotti e lui era innamorato di «Babilonia». Arbasino? Arbasino non si fece mai intervistare. L’avremo cercato almeno venti volte, ma lui niente. Aldo Busi subito, lo intervistai io. Poi divenne anche collaboratore. Sì, lui era un intellettuale importante in quel momento… Poi Dario Bellezza… Angelo Frontoni, il fotografo di Ursula Andress e di molte altre dive del cinema, era un amico mio e di «Babilonia»... La reazione negativa di Pasolini al movimento era stata emblematica, perché era come se noi volessimo andare a sputtanare quel mondo che «se non si dice si fa di più». Questo era ciò che professava Arbasino: «Quanto era meglio quando non si diceva, ma si faceva di più!». Intanto la gente moriva ogni tanto… Ma certo, veniva ammazzata nei parchi di notte. C’erano i ricatti sul lavoro per chi veniva scoperto gay. Nella scuola quanti insegnanti erano gay nascosti, perché sarebbero stati buttati fuori. Come fai ad accettare questo discorso del «si faceva di più»? Che poi era tutta gente che andava a marchette… Voi avevate collaboratori da ogni parte d’Italia: Francesco Gnerre e Andrea Pini da Roma… Ma scherzi? Gente di elevata qualità. A Roma andavo ogni mese a fare una riunione per mettere giù idee per articoli. Da lì arrivò Antonio Veneziani… ma ricordo anche Carlo Jansiti, che ora vive a Parigi da molti anni, lui ha collaborato molto con «Babilonia». Aveva la passione per l’astrologia e curava una bellissima rubrica in cui parlava dei segni zodiacali dei grandi artisti del passato, ma ha anche intervistato personaggi come Paola Borboni, Lina Wertmuller, Gian Maria Volonté. Abbiamo sempre avuto collaboratori di grande qualità. Com’erano i rapporti tra la redazione e gli uffici stampa delle case discografiche o cinematografiche del tempo? Vi davano retta? In linea di massima erano collaborativi, ma devi tenere presente che non era facilissimo tirare su il telefono e dire: «Buongiorno, siamo la redazione di un giornale omosessuale». I pregiudizi erano pesantissimi. Ti racconto un fatto. Quando mi recavo in questura per far fare i permessi o le autorizzazioni per le attività che organizzavamo all’inizio c’era il fuggifuggi generale, i poliziotti si davano di gomito e solo dopo un po’ si avvicinavano per venire a vedere il “frocio”. Mi si fermava il respiro ogni volta che ci andavo perché era una vera umiliazione. C’era un clima faticosissimo. Però di attenzione ne avete avuta… Molta. Ricordo che qualche anno dopo facemmo un’inchiesta con Giovanni Dall’Orto… Giovanni c’era da subito? Noi, lui venne qualche anno dopo. Ci mandava ogni tanto qualcosa, ma non era ancora un vero militante… quando lui scrisse l’inchiesta sugli omosessuali al confino nelle isole del sud durante il fascismo¹⁰ – un’inchiesta molto bella – «Panorama» la volle e la ripubblicò. Caspita! Sì, però a me fecero un attentato: mi incendiarono casa, di notte con una tanica di benzina… Come atto omofobo? Certo. Questo questore, di cui l’articolo faceva il nome, era ancora vivo. Quindi c’era anche una motivazione politica. Direi proprio di sì. Vennero alle tre di notte, fortuna che non ero in casa. Sono andati a fuoco il mio appartamento e i due che avevo a fianco. Stavo all’ottavo piano e avevano anche bloccato l’ascensore. Per fortuna non ci scappo il morto. Io feci denuncia, ne parlarono i quotidiani milanesi, il «Corriere della Sera» diede un grande risalto alla vicenda… l’unica misura presa dalla questura fu una gazzella della polizia di fronte alla redazione di «Babilonia» per cinque o sei mesi. La redazione di «Babilonia» era… Era in via Ebro. Lo sai che anch’io ho collaborato al giornale? Ma non ci si conosceva? Beh, sai, io conoscevo te ovviamente, ma mi interfacciavo soprattutto con Mario Anelli. L’ho visto qualche anno fa, ho avuto il suo numero da Mattia Morretta e siamo riusciti a vederci un pomeriggio. Lui è quello che ha portato avanti «Babilonia» insieme a una cooperativa di collaboratori a cui io ho venduto le mie quote: c’erano Giovanni Dall’Orto, Mario Anelli e altri ragazzi… In che anno hai lasciato «Babilonia»? Nel 1995. L’intervista termina qui. Di lì a qualche minuto sarebbe iniziato il vernissage. Ci siamo abbracciati con la promessa di una mia discesa a Città di Castello per continuare a chiacchierare. Mi mancherà molto chiacchierare con Ivan. Senza dubbio è stata una delle persone più generose, disponibili e divertenti che io abbia mai conosciuto nel corso del mio peregrinare alla ricerca della storia LGBT+ italiana e dei suoi protagonisti. Fabio Bedini, un caro amico di Ivan, ieri nel corso di una mesta telefonata mi ha detto: «Se n’è andato come ha sempre desiderato. Aveva l’incubo di morire in un ospedale. Si è accasciato nel suo appartamento appena rientrato da una festa di compleanno dove aveva visto amici e si era divertito. Probabilmente non si è neppure accorto di andare via». Voglio davvero sperare che sia così. Ivan Teobaldelli (Sestino, 15 ottobre 1949 - Città della Pieve, 10 marzo 2025) è stato uno scrittore, poeta, giornalista, editore e direttore della rivista di cultura omosessuale «Babilonia», dal 1982 al 1995. Mi mancherai, Ivan. Mancherai a tutti coloro che ti hanno conosciuto e voluto bene. Come ti ho detto poco prima di salutarti, mille volte grazie per tutto quello che hai fatto per noi. 1 Angelo Pezzana è un attivista, politico, giornalista e saggista italiano (Santhià, 15 settembre 1940). Nel 1971 è stato tra i fondatori del Fuori! (Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano), di cui per anni è stato leader. 2 Verso la fine del 1978 Felix Cossolo fa uscire su «Lambda» una finta intervista a Marco Pannella in cui il politico ammette la propria omosessualità. Alcuni redattori e Angelo Pezzana, che di «Lambda» era il direttore responsabile decidono di uscire dalla testata per protesta. 3 Ivan Teobaldelli e Felix Cossolo, Cercando il paradiso perduto, Milano, Gammalibri, 1981 4 Il cinema teatro Cristallo di via Castelbarco negli anni Ottanta era una storica location per proiezioni cinematografiche e concerti pop-rock. 5 Robert Mapplethorpe (New York, 4 novembre 1946 – Boston, 9 marzo 1989) è stato un famoso fotografo americano. 6 Corrado Levi è un attivista, docente universitario, artista, saggista, tra i fondatori e finanziatori del Fuori!. 7 Mario Schifano (Homs, 20 settembre 1934 – Roma, 26 gennaio 1998) è stato un pittore e regista italiano. 8 Elio Modugno (Milano, 24 luglio 1942 - Malaga, Spagna, 21 agosto 1978) è stato un attivista italiano. Tra i fondatori dell’Airdo (Associazione Italiana per il riconoscimento dei diritti degli omofili) nel 1972, come militante di Democrazia proletaria avrebbe fondato nel 1975 il Collettivo di liberazione sessuale. È morto tragicamente nel corso di una vacanza in Spagna. 9 I COM sono i Collettivi omosessuali milanesi che vengono creati nella primavera del 1976 da Mario Mieli quando si esaurisce l’esperienza del Fuori autonomo milanese. 10 Giovanni Dall'Orto, Per il bene della razza al confino il pederasta, su «Babilonia» n. 35, aprile 1986, pp. 14-17. Sei abbonato alla versione gratuita di La Newsletter de Le Radici dell'Orgoglio. Per poter accedere a tutti i contenuti, sottoscrivi un piano a pagamento. |